Benvenute e benvenuti a un nuovo numero di Capibara, una newsletter che fa ridere ma anche pensare. Allora come sta andando? Spero abbiate superato incolumi questi giorni, nei limiti del possibile, e che, quindi, non abbiate festeggiato Capodanno insieme a Emanuele Pozzolo.
Io sono stato meglio, grazie per avermelo chiesto, ma sono stato anche peggio, quindi che dire: è solo un momento di crisi di passaggio. Esatto, Vasco Brondi, proprio lui, buon 2014.
Ultimamente penso spesso: “ce la sto facendo”, ma in che senso? Nel mio caso “ce la sto facendo” vuol dire che ho ripreso a scrivere, a leggere, che sto riuscendo senza troppe difficoltà ad andare in palestra, a cucinare, a fare il mio lavoro, ad alzarmi dal letto. Non scalare l’Everest o vincere il Pallone d’Oro quindi, ma robe semplici: in poche parole sto riuscendo ad affrontare le giornate con apparente leggerezza e sono contento e orgoglioso di questo, perché non è così scontato, non lo è mai stato.
Non so quanto durerà, ma per ora va bene così.
Moltə di voi potrebbero dire: ok bravo, ma tanto quale sarebbe l’alternativa? Fidatevi che esiste, anche se tutti i vari episodi di “non farcela” vengono solitamente tenuti nascosti o, al massimo, vengono raccontati solo come elemento utile a rendere più emotivamente forte una storia di successo, il “non farcela” esiste e non è una colpa, è un diritto. Fallire deve essere concesso, non deve essere un privilegio. La vita non è un post su LinkedIn.
Riempiamo i salotti televisivi di tecnici competenti o riserviamo le prime pagine dei giornali a studentesse laureatesi in giurisprudenza in soli tre anni, ma non ci accorgiamo che proprio l’istruzione sta diventando un sistema in cui le classi dominanti cercano di replicare le gerarchie.
Le università prestigiose registrano una sovrarappresentazione dei centili più ricchi della popolazione. Laurearsi in un Ateneo privato all’estero può costare dai 200 ai 500mila euro, una cifra che nessuna borsa di studio può ricoprire. Con il risultato che ad Harvard o a Yale ci sono più studenti provenienti dall’1% più ricco della popolazione che del restante 50% più povero.
Non si tratta di non riconoscere l’impegno di chi studia. Si tratta di evidenziare come la narrativa ponga l’accento sul percorso di studi ripulendolo da qualsiasi considerazione sul privilegio di classe e sulle condizioni materiali di partenza.
In questo modo “i vincitori” si sentono meritevoli del loro prestigio e giustificano con più facilità le disuguaglianze. I vinti invece interiorizzano questa narrativa e spesso si sentono umiliati ed esclusi dai giochi.
Il capitale simbolico (ovvero il prestigio del percorso scolastico, l’istruzione domestica, contatti sociali preziosi, opportunità culturali ecc…) ha un peso enorme e riconoscere l’ingiustizia che si insidia nella sua genesi è necessario affinché sia ridata la giusta misura ai risultati di ognunə.
Il titolo di studio è uno degli strumenti di legittimazione delle disuguaglianze: il capitale economico va infatti di pari passo con il capitale culturale. Nelle zone alte della piramide sociale si è contemporaneamente ricchi e colti. La combinazione di capitale economico, sociale e culturale rende i privilegi delle qualità innate, meritate dall’individuo, degne di plauso. Chi non le possiede si configura come colpevole.
Mantenere fasce della popolazione poco istruite favorisce lo sfruttamento e occulta la costruzione sociale che in media sta alla base del titolo di studio. L’educazione o la scarsa scolarizzazione non sono solo un merito ma anche, e soprattutto, il prodotto di un’ingiustizia sociale che alimenta una narrazione conservatrice.
Secondo il Creative Industries Policy and Evidence Centre, le persone provenienti da ambienti privilegiati hanno più del doppio delle probabilità di essere impiegate nelle industrie creative rispetto a quelle provenienti da ambienti umili. E solo il 28% di coloro che lavorano nei settori cinema, Tv, video e fotografia provengono da background di classe inferiore e, spesso, non occupano posizioni apicali.
Se volete approfondire vi consiglio la lettura di Non è un pranzo di gala di Alberto Prunetti (Minimum Fax, 2022) o, per iniziare, questa intervista.
E chi ce l'ha fatta e proviene da classi inferiori? Può succedere ma sono anecdotal evidence, ovvero prove minoritarie usate per travisare la realtà quando è scomoda.
La retorica del "tutto dipende da me" è ingiusta due volte. Innanzitutto per il mancato riconoscimento del privilegio di chi ha di più. Secondariamente perché illude gli individui di poter contare sulle loro uniche forze, rendendo il fallimento un pesantissimo fardello individuale.
Non ci dovrebbe essere nulla di sbagliato nel fallire. Il fallimento è un auto-inganno che dovrebbe permettere alle persone di poter riscrivere le proprie convinzioni e correggere le proprie azioni.
Tuttavia un fallimento universitario o lavorativo rappresenta un macigno sul cuore degli individui: al netto del mancato raggiungimento dei risultati pesa il giudizio intersoggettivo che la nostra società ha costruito del fallimento in sé.
Fallire significa sentirsi esclusə dal processo produttivo e, nei fatti, credere di perdere qualsiasi utilità.
Il fallimento viene evocato positivamente solo come tappa di un percorso di successo, tuttavia potersi rialzare o ritornare ad avere il coraggio di rischiare è un privilegio.
Quanti hanno la possibilità di fallire un grosso investimento e poter accedere in breve tempo a nuovo credito per riprovarci? Quanti possono scegliere di ricominciare un percorso di laurea dopo essersi resi conto di aver sbagliato indirizzo e aver “perso” qualche anno di studi? Quanti, dopo essere caduti, possono far affidamento su condizioni materiali e psicologiche per riprovarci?
Rimettere in discussione alcune delle dinamiche del fallimento non significa negarne le sue accezioni positive o negative, significa tuttavia far sì che non ci siano cittadini a cui il diritto di sbagliare, con o senza colpa, sia negato.
La meritocrazia è un mito. La povertà è un problema collettivo.
Già in età prescolare la percezione che abbiamo del nostro status condiziona le nostre performance. Chi è poverə deve sostenere il peso maggiore, anche sul piano psicologico, e rischia di dover faticare maggiormente rispetto a un suo pari benestante.
Le preoccupazioni economiche rendono le persone meno fiduciose, meno temerarie e più dipendenti. Colmare il divario tra ricchi e poveri significa costruire un tessuto sociale inclusivo in grado di far crescere il benessere generale.
Dagli Anni Ottanta ha sempre più preso piede il mito del self made man. No signorə, le condizioni economiche sono un fattore che influenza troppo. Sostenere chi ha di meno è una condizione sine qua non per una democrazia che sia davvero tale.
"La gente non è povera perché compie azioni sbagliate, ma compie azioni sbagliate perché è povera", scrive Chiara Volpato, autrice del libro Le radici psicologiche della disuguaglianza (Laterza, 2019).
Chi ha di meno crede di meno in se stessə ed è più espostə a reazioni allo stress disfunzionali. Secondo gli studiosi Mullainthan e Shafir chi ha di meno è soggettə a una vera e propria tassa sulla mente che impedisce di valutare oggettivamente le proprie possibilità e numerosi studi lo confermano.
La sola fiducia in sé, o la sola autostima, non bastano. Come ricorda l'economista Piketty, dagli anni Settanta in poi la quota di ricchezza degli individui è sempre più determinata dalle condizioni di ricchezza di partenza: il passato sta divorando le possibilità del futuro.
L'Italia è un esempio lampante: i dati sull'ascensore sociale sono in peggioramento, se nasci povero hai più del 50% delle possibilità di restarci.
In quest'ottica è evidente che la narrativa del solo merito, se non inserita in un contesto materiale oggettivo, non è che spazzatura dialettica finalizzata al solo mantenimento dello status quo.
"Ma lui ce l'ha fatta!", leggo o sento spesso.
I dati sono chiari, l'ascensore sociale funziona sempre meno. Eppure quando qualcunə evidenzia il problema non viene percepito o viene minimizzato.
Un'indagine di Shai Davidai e Thomas Gilovich dimostra come le persone sovrastimino le possibilità di migliorare le proprie condizioni (o quelle degli altri). Ci costruiamo una narrazione di un mondo più giusto di quello che è.
Chi ha potere lo sa e spesso finge di essere aperto e pronto a colmare l'asimmetria (non solo economica) portando ad esempio o nel proprio entourage un rappresentante delle minoranze. Questo fenomeno si chiama tokenism.
Nel tokenism lo sforzo di inclusione è solo apparente e finalizzato a conservare la realtà.
"E allora Steve Jobs?". "Conosco gente che...".
C'è chi ce la fa, è vero. Ma non confondiamo il Token con la realtà dei fatti che è sempre più complessa: il sogno di rivincita sociale si sta trasformando in un incubo. I meccanismi di protezione delle classi sociali medie e basse sono stati allentati nella convinzione che il mercato avrebbe naturalmente premiato i migliori.
In quasi nessuno dei Paesi del cosiddetto "capitalismo maturo" questo è successo, anzi. Uno dei casi più emblematici sono gli Stati Uniti: il mito della "Terra delle opportunità" sta tramontando, lasciando spazio alla frustrazione e alla rabbia sociale.
I casi particolari, quando usati per tentare di negare l'evidenza, sono belle narrazioni, ma non sono una fotografia della società.
Dal garage alla Silicon Valley? Una storia che non racconta delle discriminazioni sistematiche di un sistema sempre più iniquo. Negli Usa come in Italia.
Non è solo una questione di opinioni. Da una parte c'è chi sente la necessità di dover affermare che nessun essere umano meriti di vivere in condizioni indegne. Dall'altra chi avvelena il dibattito, facendo leva sull'invidia e sulla competizione tra individui.
Una delle leve più utilizzate resta quella della colpevolizzazione del povero: chi non ha mezzi per sostenersi (o non ha una ricca famiglia in grado di assorbire lunghi periodi di lavoro mal pagato o non pagato) diventa un "parassita", un "professionista del divano", un "reietto".
Tre trappole comuni derivanti dalla narrazione degradante di classe sono la solidarietà negativa tra lavoratori e lavoratrici, il tunnel dell'esclusione sociale e l'ergastolo di umiliazione nel sentirsi inutili.
Non esistono lavoratori o lavoratrici che meritino di essere trattati in modo indegno, che meritino di non essere pagati, che meritino di essere poveri.
Uno degli errori più gravi è quello di credere che esistano “super cittadini” che meritano di più e che siano in grado di decidere al meglio per tuttə. Il più delle volte appartengono alla stessa classe, che non fa che autotutelarsi.
Potremmo lavorare meno e lavorare tuttə. Potremmo avere un lavoro dignitoso senza che questo determini chi siamo e quanto valiamo. Potremmo, ma decidiamo di non farlo. Rimettiamo in discussione sentimenti quali solidarietà e cooperazione, chiediamo a chi ha toccato il fondo di scavare ancora un po’.
“Papà che insetto è un verme?”. “Ahahah non è un insetto… il verme è un essere inutile”. “La mamma dice che TU sei un verme”. Questa frase è tratta dal manga L'uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge (Canicola, 2023). Alcuni esseri umani nascono per beffa, subendo ogni giorno la chimera e la tentazione del nulla. Questo volume non parla di un uomo che cerca di sopravvivere senza avere talento, ma parla di come il talento possa sfuggire di mano e perdersi per terra come preziosa acqua nelle trame del deserto.
Legato al concetto di successo e al rapporto fra merito ed effettive possibilità, c’è appunto quello di talento. Ogni abilità nasce dalla combinazione fortuita e variabile di tre elementi: genetici, ambientali e comportamentali, su cui possiamo o meno avere un controllo e qui vi rimando a un articolo di Camilla Fiz che approfondisce il tema ponendo il focus sul genio musicale.
Qui, invece, rimando a un articolo che racconta la storia di un ragazzo che è stato una giovane promessa del calcio, rimanendo però solo una promessa.
A proposito di narrativa e talento: l’incredibile successo postumo del romanzo Stoner (Mondadori, 2021) resta un fatto singolare che il critico letterario Luca Briasco spiega così: “il personaggio di Stoner è costruito in antitesi alla tradizionale idea per cui una vita qualunque può nascondere esplosività, e questo è il fascino del libro. Questa vita resta implosa fino alla fine, una specie di Bartebly moderno dalla dignità quasi eroica”. Ve lo consiglio.
Ma cos’è il talento? Esiste davvero o è solo l’ennesimo concetto retorico usato per giustificare le disuguaglianze? Alberto bebo Guidetti torna gradito ospite di questa newsletter e, partendo dall’ascolto del podcast Wild Baricco, ci dice la sua.
Il talento come superstizione
Ho ascoltato il podcast Wild Baricco e, delle numerose cose di cui si parla, proprio all’inizio c’è un passaggio sul talento, in cui Matteo Caccia incalza lo scrittore a spiegarne la consistenza. Baricco risponde vago e laconico, parlando di dono. Nel proseguo del podcast si affrontano tanti altri argomenti tra cui anche il suo passato di praticante religioso e di attuale contatto con la spiritualità. Il passato cattolico aiuta ad inquadrare bene la sua formulazione dell’idea di talento, come dono, come di unzione divina e quasi calvinista: siamo destinati a qualcosa, è importante riconoscerlo ed investirci sopra.
Vorrei dissentire energicamente.
Il talento fa scopa con l’idea di merito: qualcosa per cui ad ogni singolo essere umano viene riconosciuto un benefit e un premio perché “eccellente” in qualcosa. Se sul merito e la meritocrazia si è detto tanto in questi ultimi anni aiutando a demolire un concetto tossico per la nostra società, quando si volge lo sguardo al talento si resta ancora abbagliati dalla santificazione di chi sa fare qualcosa dotato di luce divina, inspiegabile e ineguagliabile.
È vero, lo ammetto, non sono Beethoven, ma Beethoven sarebbe stato sé stesso se non ci fossero state una serie di casualità e causalità a formarne le capacità? Se Ludovico Van avesse preferito impastare il pane, sarebbe diventato il miglior panettiere della storia perché dotato di questo talento divino o sarebbe stato solo uno con le mani in pasta? Difficile a dirsi, ma riconosciamo in noi e in altrə la somma di possibilità colte, mancate, non raggiunte che non dipendono da quanto siamo inclini ad un’attività e da quante ore dedichiamo a questa.
Questo ragionamento però si accoppia spesso con un’altra parte del discorso di Baricco: coltivare i talenti e dare loro gli strumenti. EHNNÒ! E qui mi parte la brocca! Questa è la validazione del presupposto divino: siccome sei un beato allora dobbiamo farti strada. Il punto è che abbiamo invece l’obbligo di trattare le persone come persone intelligenti e permeabili all’istruzione. Dobbiamo guardare a chi si forma come a qualcuno che grazie all’apprendimento di qualcosa che non aveva mai toccato in precedenza può attivare il meccanismo della creatività, quello forse davvero “mistico” e riguardante il mettere assieme cose che non starebbero bene assieme e poi alla fine ci stanno.
Il talento non esiste nelle forme in cui ce lo vogliono vendere. Arrivo a dire che il talento non esista in toto: è una superstizione al pari del destino.
Esistono percorsi formativi autonomi o collettivi. Esistono passioni in cui siamo schiappe ma che sono potenti al pari di chi dimostra risultati inarrivabili. Esistono le persone con le loro ignoranze e cocciutaggini che arriveranno attraverso studi formali a diventare Berners-Lee inventando Internet su un foglio di carta.
Ma il talento è solo un’invenzione per privatizzare le attività creative: se dimostri predisposizione prego accomodati questa è la fattura e per gli altri c’è il dopolavorismo.
Il talento è la scusa che usa l’elite borghese per difendere il proprio fortino culturale dal possibile assalto di chi -con in mano solo i propri scoramenti- riesce malgrado tutto a mettere insieme delle cose che prima non stavano assieme ed essere trasformativo.
Perché succede? Difficile dirlo: sicuramente non per merito del talento o del destino che è, per chi vuole crederci, una giustificazione di comodo, ma lontana dalla infinite possibilità che non sappiamo e non possiamo spiegare.
Un po' come sentenzia la voce fuori campo nell'incipit del film Match Point di Woody Allen: «chi disse: “Preferisco avere fortuna che talento” percepì l'essenza della vita, qui io sentenzio: è meglio seguire il talento o la passione? È possibile amare il proprio lavoro? Oppure è un privilegio destinato a pochi fortunati, mentre il resto di noi è condannato a una vita trascorsa a fare un mestiere che non sopportiamo?
Così come nulla è statico ma tutto è mutevole, lo sono anche i nostri interessi, talenti e passioni. Entusiasmo e noia si alternano continuamente e a tuttə capita, prima o poi, di non trovare più entusiasmo in ciò che facciamo (qui consiglio il libro Open di Agassi). È in questi momenti che si va alla ricerca del cambiamento. Ciò che vi auguro (ma lo auguro anche a me stesso) è che nulla vi impedisca di mollare qualcosa che non vi piace più o che non vi fa stare più bene, di provare a star meglio senza essere bloccatə dalla paura di star peggio, di rischiare e magari di fallire anche se non c’è nessun elastico pronto a riportarvi su.
Per questo diciannovesimo numero di Capibara è tutto. So che sto andando lungo, ma vorrei lasciarvi con un pezzo che ho scritto non troppo tempo fa, quando ero più o meno nelle stesse condizioni in cui sono ora, con la differenza che credevo di non farcela. Possiamo anche non farcela a volte, e va bene così. Magari un giorno vi intervisteranno e racconterete di quando non ce l’avete fatta, o magari no, chissenefrega. State bene e prendetevi il vostro tempo.
Non mi sento più a casa in questo mondo
Conosco tutti, saluto tutti, non pago neanche un caffè. Eppure sono solo, sempre di più, una solitudine cronica mi invade, nelle forme più diverse. Ormai mi sono abituato, così tanto da non poterne fare a meno, così tanto da non riuscire ad affrontare certe cose se non isolandomi, anche quando la compagnia ce l’avrei. La solitudine è anche positiva, aiuta a conoscersi, a capirsi e a capire gli altri da un punto di vista privo di condizionamenti, ma fino a un certo punto, poi arrivi ad avere una consapevolezza di te stesso e di ciò che ti sta intorno fin troppo chiara e profonda, finisce la scoperta, finisce l’interesse. Rimangono fuga e disillusione.
Forse è una condanna, un grande masso da portare sulle spalle fino in cima alla montagna, per poi vederlo cadere giù, andarlo a riprendere e riprovare, e riprovare ancora.
Incontro altra gente, conosco anche loro, li saluto. Non ricambiano, forse non mi hanno riconosciuto, d’altronde vado e vengo da questo posto ormai da anni, e negli anni in cui potevo radicarmi ero già troppo diverso e facilmente trascurabile per entrare nelle memorie comuni di chi cresce, scopa e muore sempre nello stesso posto. Se la solitudine ha i suoi lati positivi e le sue diverse sfaccettature, l'invisibilità no, prima di tutto perché non lo sei davvero, ma solo per ciò che può far di te un essere umano; in secondo luogo perché non lasci tracce, mentre gli altri le lasciano in te, sei uno spettro che appare ogni tanto, fa qualche rumore, sposta qualche oggetto.
Non ho i loro stessi problemi, vorrei poterne parlare a volte, ma è inutile e spesso controproducente, allora mi tengo tutto come fosse una colpa, un segreto. Le loro vite vanno avanti, nei modi più classici e documentabili, e così anche i loro problemi sono concreti, tangibili, affrontabili in qualche modo. I miei non esistono davvero, sono fantasie, esagerazioni, sabotaggi, capricci, velleità. Ogni difficoltà non confrontabile mi rende più solo, e non sono abbastanza carismatico per trasformarlo in fascino; ogni dolore non spiegabile mi rende più diverso, e non sono così popolare da poterlo essere liberamente.
Non ho una casa da poter chiamare tale, una famiglia sana alle spalle, una città di cui sentirmi parte, degli amici con cui sono cresciuto, una ragazza con cui passare i momenti vuoti, a cui poter dare il meglio di ogni mia insicurezza e consapevolezza. Non ho qualcosa da costruire e non sono più così giovane da convincermi sia una cosa normale e di cui non preoccuparsi; il provare a muoversi il più possibile rende il non andare da nessuna parte più evidente, i piccoli passi non vanno in avanti se non per il solito marciapiede che percorro insieme a improvvisi attacchi d’ansia e sconforto, e per il tempo, che comunque se la cava bene anche senza di me.
La felicità è uguale per tutti, ma ognuno è infelice a modo suo, e l'infelicità rende soli: lo è anche chi sembra non esserlo; chi ha abbastanza fortuna, pazienza e coraggio riesce a trovare la persona con cui condividere la reciproca solitudine e forse si ottiene quell’amore autentico, fatto di passioni e incomprensioni che, dimezzato, appare come la più patetica delle cose. Ma il più delle volte si sta insieme per non stare soli, non per essere soli insieme e innamorarsi di questo, di ogni storia, di ogni disordine, di ogni aspetto, finalmente liberabile senza il rischio che ti si ritorca contro. Alcune situazioni sono più complicate di altre, inutile sostenere il contrario: sono un domino chilometrico, un cubo di Rubik con centinaia di facce. E la solitudine si insinua in ogni apertura disponibile prendendo la forma di ciò che sei, ti rende stupido, aggressivo, divertente, disponibile, strano. È scomoda, ti obbliga a chiedere favori, a fare favori, a dover attirare l'attenzione, a dover accettare disparità assurde utili a farti sentire inutile. Indifferenza e pietà si alternano: se sei solo devi avere qualcosa che non va, te lo sei meritato. Stai con noi dai. Forse è così, ma non volete davvero saperlo e non voglio davvero dirlo.
Non c’è neanche più l'immaginazione, nella quale prima mi rifugiavo, c’è solo un silenzio pieno di voci e rumori fastidiosi di chi mi passa accanto ma è sempre più distante.
Vado a letto presto per finire prima e non mi sento in colpa, mi sento in colpa se provo a vivere di più; osservo dagli angoli e per questo mi ricordo tutto, non so fare altro. Resto in silenzio, mentre pensate all'assicurazione e alla messa della domenica; la circolazione del sangue è lenta, la vista appannata, da me non esce nessun lamento, escono storie che soffoco.
Tutti mi conoscono, tutti mi salutano, ma i loro discorsi non mi riguardano e la mia figura viene guardata con sempre più indifferenza. Così eccomi ancora più stupido, aggressivo, divertente, disponibile, strano, con la mia fantasia ferma a qualche anno fa e la mia mente che vaga a testa bassa, alzando ogni tanto lo sguardo per vedere se è scattato il verde. A volte non controlla neanche, va a intuito. Se prova ad andare oltre non vede nulla e ciò che non ha visto non lo vedrà più.
Se niente di ciò che ho trovato o provato è andato bene, se non avrò mai pace, se la mia vita sentimentale è un disastro, se la distanza dagli altri non fa che aumentare e se mi vergogno di parlare di me e di ciò che sono, non è perché non indosso la cravatta, non possiedo auto o perché faccio il caffè per uno, ma perché ho un'interiorità diversa ed esterno cose che gli altri si guardano bene dal dire, probabilmente anche dal pensare. Se non sarò mai felice e se chi mi ha messo qui non avrebbe mai dovuto farlo, se non potrò mai godere delle gioie della vita in quei modi semplici e pieni che mandano avanti la gente, non è perché non mi sento a casa in questo mondo o perché continuo a mettere “in attesa di occupazione” nonostante tutto ciò che faccio, ma perché ogni aspetto di me non si lega con le altre persone, ma con un insieme di pagine bianche che a volte si riempiono, a volte restano tali.
Odiavi febbraio, dicevi che avresti accettato qualsiasi cosa tranne che morire a febbraio, era una sfida, verso te stessa e verso tutte le cose. Sei morta a marzo e chissà se hai pensato di avercela fatta, che andava bene così, o se hai avuto paura, se ti sei sentita lo stesso sconfitta. Ho amici che per me sono importanti e so di esserlo per loro, forse solo un po’ meno, e sono contento quando vedo le vite degli altri andare avanti nei modi che hanno scelto; se non posso vedere la mia, perché legata a mondi e pensieri profondi, lontani e sconosciuti, sorrido nel vedere la loro, che sa continuare senza lasciarsi andare all’aridità o al diluvio. Non potrò risolvere così ogni mia mancanza, gli sguardi della gente o il loro guardare altrove, e allora cercherò, come sempre, la maniera giusta, i giusti desideri. Magari un giorno, chi lo sa, se non sarò troppo stanco o distratto.
Non guarirò, non sarebbe giusto darti tutto questo. Non è giusto neanche tenerlo tutto per sé, e le vostre mani sono già occupate, una per tagliare, l’altra per cambiare canale. Le sue mani potrebbero, avrebbero potuto, hanno potuto, ma non ci arrivo fin lì e, se ci arrivassi, non so cosa farei.
Mi invitano nel mio ex liceo a parlare ad alcune classi, il tema è la felicità, quasi paradossale ma, stranamente, non mi sento fuori posto: in prima fila vedo una ragazza che ogni volta che la incontravo per strada un po’ mi incantavo e che giorni prima aveva anche iniziato a seguirmi su Instagram, ma non le ho mai scritto, né prima né dopo, e credo sia stata la scelta giusta; sempre in prima fila, ma dall'altro lato, vedo la mia vecchia prof di italiano e latino, sempre seria come un tempo, ma che ogni tanto sorride. Penso per un attimo al mio prof di filosofia, penso che se avesse potuto ci sarebbe stato anche lui, lì in prima fila, l’unica persona ad avermi detto che ce l’avrei fatta e, forse, vedendomi lì, me l’avrebbe detto con ancora più convinzione. Non avrei mai avuto il coraggio di dirgli che aveva visto male, che non ce l’avevo fatta manco per il cazzo e che non penso ce l’avrei fatta mai. Ma lui lì non c’era, né lì né altrove. Dopo essermi malamente presentato e dopo alcune battute, il discorso si dirige verso la ricerca di un posto dove stare, di qualcosa che sai che c’è ed è lì che ti aspetta, ti fa star bene, sia nei pensieri che nella realtà e ci puoi andare ogni volta che vuoi, nonostante tempo, distanza e differenze. Sono curiosi, attenti, le loro domande sono brillanti e sono contento di rispondere e di esser messo in difficoltà. Spero possiate trovare questo posto dove stare, dico prima di salutarli, ma non so cos’è l'amore, anche se può sembrare il contrario, anche se può sembrare che so così tante cose, la verità è che non so un cazzo. Forse è proprio questo, sì forse è questo, quando quel posto non è un luogo ma una persona, che sai che c’è ed è lì che ti aspetta.