L'oggetto magico che muove il mondo
Esiste un piccolo oggetto magico, dalle qualità e dai poteri sorprendenti, al quale noi tutti dobbiamo molto. Una cosa piccolissima, una miniatura preziosa, densa, viva, che non ha avuto bisogno di amanuensi per essere disegnata, ma di ingegneri.
I microprocessori o chip o semiconduttori (userò queste tre parole come sinonimi) sono i piccoli oggetti magici presenti in talmente tanti prodotti di utilizzo comune, che fatichiamo anche a riconoscerne la presenza . Molte persone non sanno nemmeno come sia fatto un chip. Eppure tutti utilizzano strumenti densi di microprocessori come smartphone, computer, lavastoviglie, lavatrici, televisori, forni a microonde e automobili. Nel 2011, Marc Andreessen scrisse che il software si sarebbe mangiato il mondo, oggi assistiamo a una prima fase di digestione dell’esistente, a seguito di un lungo, e cannibale, processo di alimentazione che ha interessato ogni aspetto della vita, irrealizzabile senza la componente in ferro e silicio, rappresentata proprio dai microprocessori. Per continuare in questo famelico movimento, però, la tecnologia continua ad aver bisogno di chip. Nell’ecosistema digitale per parlare e parlarsi, per generare valore e per combattere guerre, per archiviare e conservare dati, le organizzazioni hanno una crescente necessità di potenza di calcolo e quindi - anche - di microprocessori, che elaborano informazioni ed eseguono compiti.
Secondo il Wall Street Journal, le vendite di semiconduttori hanno superato, per la prima volta, i 500 miliardi di dollari l'anno scorso, e dovrebbero raddoppiare nel giro di un decennio fino ad arrivare a 1 trilione di dollari, cioè un miliardo di miliardi. Nel solo 2020, l’industria ha prodotto l’immane cifra di 932 miliardi di microprocessori. Se ipotizzare un mondo senza chip è complicato, immaginare un futuro senza chip è impossibile, salvo il ricorso a narrazioni distopiche.
Per capirci, i veicoli elettrici richiedono il doppio del numero di microprocessori utilizzati dalle macchine tradizionali, per non parlare delle auto a guida autonoma. Anche tutte le tecnologie necessarie ad abilitare il metaverso, a partire dalla realtà virtuale, richiederanno microprocessori. L’industria dei videogame ha fame di chip per giochi dalla grafica sempre più realistica.
Negli ultimi due anni tuttavia, l’offerta di semiconduttori ha prima vissuto una crisi e una carenza di prodotto, che affonda le radici negli effetti lunghi della pandemia sulle catene di approvvigionamento, che poi si è trasformata in un eccesso di offerta. Tutto era iniziato come un’aberrazione degli effetti da lockdown sulle nostre vite vissute da remoto, con l’esplosione della domanda mondiale di laptop, smartphone, console per videogame, prodotti zeppi di chip che ci sono serviti a comprare, lavorare, studiare e intrattenersi da remoto. Se la carenza è andata avanti per il 2021 e per il 2022, adesso, scrive il Wall Street Journal, «le industrie che fabbricano microprocessori vedono le scorte aumentare» pericolosamente. Tutta colpa del ciclo economico e dell’imminente recessione.
Per molti mesi le case produttrici di automobili però non sono riuscite a consegnare decine di migliaia di vetture, a causa della mancanza di chip. La causa non era la guerra in corso, ma un’altra guerra, una guerra possibile, quella tra Cina e Taiwan. Proprio nella piccola isola del Pacifico si concentra una significativa percentuale della produzione di chip del mondo, grazie alla TSMC, la Taiwan Semicondutor Manufactoring, azienda che ha già annunciato che, in caso di conflitto, le sue fabbriche diventerebbero immediatamente «non operative».
Apple si affida quasi esclusivamente a TSMC - «più un partner che un fornitore», riferisce The Information - per produrre i nuovi chip che alimentano iPhone, iPad e i computer Mac. Nella maggior parte dei casi, è come se la Mela non avesse altri fornitori.
Il capitalismo, digitale e non, con tutte le forze di cui dispone, prega e spera che la pace nello Stretto di Taiwan sia più duratura che mai. Se dovesse scoppiare un’altra guerra, le fabbriche di molti oggetti di consumo, in tutto il mondo, dovrebbero interrompere le forniture. La dipendenza dalla piccola isola è talmente evidente, che Chris Miller, professore di storia alla Tufts University e autore di Chip War, sostiene che «l’intera economia mondiale sarebbe drammaticamente colpita se la Cina attaccasse Taiwan». Si legge economia e si intende vita.
Europa e Stati Uniti stanno provando a metterci una pezza con due provvedimenti che si chiamano allo stesso modo, Chips Act, e che dovrebbero rilanciare la produzione nazionale e continentale di semiconduttori. Ma ci vuole troppo tempo per costruire nuovi stabilimenti dal niente. L’ultima fabbrica di TSMC, in grado di produrre semiconduttori da 3 nanometri, costruita nel 2020, è costata poco meno di 20 miliardi di dollari. Questo genere di chip, da 3 milionesimi di millimetro, contengono più transistor, offrono velocità più elevate e una migliore durata della batteria, Apple li utilizzerà a partire dal prossimo anno.
Tra le citazioni che forse spiegano meglio la centralità di questo oggetto nella costruzione del futuro, e di buona parte del nostro presente, c’è questo passaggio di un articolo di The Information dedicato a Johny Srouji, l’uomo che aiutato Apple a migliorare le performance dei propri microprocessori, che vale la pena leggere per intero.
«Mentre la maggior parte delle aziende crede che i loro prodotti debbano guidare lo sviluppo del silicio, Srouji crede il contrario: ritiene che i progressi del silicio portino all'innovazione del prodotto».
Più sono centrali, più sono economici, più sono potenti. Qualche anno fa, Gordon Moore co-fondatore di Intel - altra azienda leader nella produzione di chip - aveva fatto una previsione trasformatasi in una specie di mantra del settore, e definita presto legge di Moore: il numero di transistor su un chip raddoppia all'incirca ogni 18 mesi, determinando continui salti nella potenza di elaborazione. Ai tanti “più” che abbiamo elencato prima occorre aggiungere che i semiconduttori sono sempre più piccoli, ai limiti dell’invisibile, e sempre più densi di cose, di transistor appunto.
Ancora una volta la digitalizzazione mostra molte contraddizioni, potremmo definirle la faccia nascosta dell’immateriale: frizioni fisiche in un mondo in cui proprio l’assenza di frizioni rappresenta un paradigma; la dipendenza da lavoratori, materiali e minerali distanti e invisibili. La complessità di un sistema che ha bisogno di componenti misconosciute (tanto i minerali quanto i sottili fili di rame racchiusi in pannelli di resina, chiamati substrati, necessari a far funzionare gli stessi chip). Vulnerabilità inedite che scopriamo soltanto quando si sono manifestate.
I chip sono il nocciolo, l’anima tecnica, dei tanti oggetti parlanti che utilizziamo tutti i giorni, più volte al giorno e direi per tutta la vita, e che rendono concreta l’espressione Internet delle cose (IoT).
A seguito di una guerra tra Cina e Taiwan, che cancelli il processo di digitalizzazione del mondo, chi potrebbe - oggi - produrre automobili senza microprocessori? E i telefoni? Forni a microonde? (A me viene in mente Il Silenzio di Don De Lillo, libro essenziale, in tutte le sfumature dell’aggettivo essenziale).
Interrogativi figli di un’ultima notizia che rivela il perturbante di tutta la vicenda.
Senza microprocessori, il cuore dell’industria dell’automazione, che produce altra automazione, si ferma. I microprocessori possono essere prodotti solo da altre macchine che contengono altri microprocessori. E probabilmente ci saranno altre macchine ancora che producono macchine destinate a produrre le ultime macchine di questa singolare catena. In ogni caso, i chip sono oggetti troppo complessi e troppo piccoli per essere fatti da uno di noi. Da un essere umano.
Se osservate un video delle fabbriche di TSMC, fa impressione interrogarsi sul ruolo e i movimenti accorti degli uomini, degli operai, dei tecnici specializzati. È un ruolo marginale o essenziale? Sembra che stiano lì a controllare che le macchine lavorino al meglio delle loro possibilità, limitando al minimo ogni loro interferenza, ogni intrusione - umana - nel processo di produzione. Basta guardare questi video per scorgere, nella parte alta dei corridoi, contenitori automatizzati che spostano le basi - si chiamano wafer - dalle quali si estraggono i singoli chip. I tecnici, nella parte bassa dello schermo, sono completamente coperti da tute, guanti, stivali, occhiali, scarponi. Nulla di loro, nulla della loro pelle è esposto, come in caso di un incidente chimico, batteriologico o nucleare, come in una sala operatoria. Un abbigliamento che evita qualsiasi contaminazione da parte degli umani. Un solo granello di polvere, una particella in sospensione, la pellicina che si stacca da un’unghia o un capello possono danneggiare un singolo prodotto o l’intero sistema. In queste fabbriche, dove i macchinari per produrre microprocessori sono fatti da altri macchinari zeppi di microprocessori, gli esseri umani sembrano comprimari. Nella produzione ovviamente, perché nella ricerca - sempre più assistita tuttavia dall’intelligenza artificiale - l’intelligenza umana svolge ancora un ruolo imprescindibile.
Gli oggetti magici che hanno così tanto rilievo nella vita dell’umanità, sono costruiti in modo tale da escludere sempre più l’essere umano dal processo produttivo.
Questi ultimi tre anni ci hanno messo in contatto con una cosa pressoché invisibile, che tanto potere ha esercitato su di noi. Abbiamo dovuto anche imparare a rappresentarla. Per il virus, che Marco Revelli definisce «un invisibile frammento di “vivente” non umano» (un altro decisivo invisibile), abbiamo creato una rappresentazione simbolica, sicuramente tra le più note di tutti i tempi. Ad Alissa Eckert e Dan Higgins, illustratori dei Centers for Disease Control and Prevention americano, è stato chiesto di creare un «beauty shot» del coronavirus, per portarlo all'attenzione del pubblico. Ci hanno messo un po’ di tempo e poi hanno sviluppato l’immagine che tutti conosciamo, sviluppata da un software Autodesk 3ds Max, «dove avviene tutta la magia» (credo abbiano dovuto utilizzare molti chip, senza pensare al fatto di averli utilizzati ovviamente).
Alla fine abbiamo costruito questa immagine del virus, e quando qualcuno ci chiede di pensare al Covid19 in sé, non agli effetti, andiamo con la memoria a quella rappresentazione, che forse rappresenta una delle illustrazioni più conosciute e viste di tutti i tempi.
Escluderei che i chip siano ciò che Timothy Morton definisce iperoggetti e quindi «entità reali la cui essenza ultima è preclusa agli esseri umani». Tra gli esempi di iperoggetti c’è il cambiamento climatico, «la somma complessiva di tutto il materiale nucleare presente sulla Terra, o semplicemente il plutonio, o l’uranio, (…), il polistirolo o le buste di plastica, o l’insieme di tutti i rumorosi macchinari del Capitale. Gli iperoggetti, dunque, sono «iper» in relazione a qualche altra entità, siano essi costruiti direttamente dagli esseri umani oppure no». Il complesso dei chip attivi in tutto il mondo potrebbe essere definito iperoggetto o un insieme di iperoggetti.
Credo sia necessario avviare una riflessione sullo statuto di questa cosa diversa da molte altre - da tutte? - le altre cose.
Come i virus, anche i microprocessori sono drammaticamente piccoli, l’ordine di grandezza è quello di un capello su una superficie peraltro densa di altri oggetti. Un oggetto così piccolo che possiede un peso cospicuo nella nostra vita. Nostra, nel senso della specie umana nell’epoca dell’antropocene, nostra di tutti, a esclusione forse di alcune popolazioni sperdute dell’Amazzonia, a rischio estinzione.
La scomparsa improvvisa o l’improvviso mancato funzionamento di tutti i chip (una tempesta solare? Sempre De Lillo), produrrebbe immani conseguenze, molto più gravi di quelle portate dalla pandemia di Covid19. Ci vorrebbero anni per reimparare a vivere senza chip. Se per ipotesi, i miliardi di miliardi di semiconduttori nel mondo si fermassero tutti insieme, la nostra esistenze muterebbe i propri contorni all’istante: niente energia, niente comunicazioni, niente trasporti, niente scambi finanziari, torneremmo immediatamente a un mondo analogico.
Per capirne la rilevanza fate questo esperimento: provate a pensare a quante attività della vostra vita escludono la presenza di un chip (mangiare ma non cucinare, camminare e parlarsi ma solo in presenza, e poi…?).
Possiamo accendere il gas, bere l’acqua dal rubinetto, asciugare i capelli perché i semiconduttori regolano le reti di distribuzione e di produzione di energia e di tutte le risorse essenziali.
Il chip è un oggetto radicale del presente, nel senso di una sua collocazione necessaria alla radice di molte cose e di molte attività, che senza il microprocessore non potrebbero proprio funzionare o comunque non funzionerebbero allo stesso modo.
Eppure, nonostante un tale rilievo, sento lontano, se non addirittura assente, ogni tentativo di riflessione e poi di rappresentazione - di rappresentazione formale - di questo oggetto invisibile, tanto potente quanto fragile, di questo oggetto intangibile e concretamente essenziale al vivere. Sebbene esista un duo di artisti, Semiconductor che esplora «la natura materiale del nostro mondo fisico e il modo in cui lo sperimentiamo attraverso la lente della scienza e della tecnologia», e quindi guarda al chip come co-autore dell’opera, non scorgo un’attenzione simile al semiconduttore come nucleo di un’opera.
Di un semiconduttore esistono illustrazioni e fotografie (come quelle che vedete in questo articolo) che non rendono appieno la complessità e la densità né dell’oggetto né dei suoi molteplici utilizzi. Immagini da banca dati: ricostruzioni e illustrazioni fredde, piatte, che non restituiscono gli innumerevoli, profondi, livelli di una cosa fatta di miliardi di altre cose, prodotta da altre cose (oltre che dagli umani). Non esistono rappresentazioni, di nessun genere, che evochino il valore del microprocessore, che vogliano scontrarsi con esso, provando a raccontarne il potere. Mai come in questo caso, si può utilizzare l’aggettivo “definitivo” per riferirsi al potere definitivo del chip.
Non mi pare esistano, insomma, significative rappresentazioni formali che guardino al chip come soggetto e oggetto di un’opera d’arte, sia figurativa che letteraria o musicale. Manca sia una riflessione che una teorizzazione. Negli anni dieci del Novecento, il Futurismo, per fare un esempio, aveva sentito il bisogno di rivolgersi a una nuova bellezza, rappresentata dai nuovi oggetti figli del progresso e del capitalismo di inizio secolo: «i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aereoplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta». Noi non ci interroghiamo sul peso di questo oggetto leggerissimo. Sembra quasi che l’essere umano, oltre a non poter fabbricare un microprocessore con le proprie mani, non sia nemmeno in grado di rappresentarlo.
Troppo complicato, troppo denso, troppo potente, troppo piccolo.
La parola tecnologia può dirsi oggi onnisignificante perché un piccolo - primo e ultimo - oggetto le consente di schiudere i molteplici significati di cui essa è portatrice. Il microprocessore costituisce la vera sineddoche della tecnologia.
Si può allora rappresentare una figura retorica?
Forse tutto dev’essere razionalizzato per accedere al racconto di questa cosa, e tutto deve passare per le forche caudine del rapporto di causa ed effetto. E non appena abbandoniamo il microprocessore come cosa, e prendiamo in esame i prodotti animati dallo stesso microprocessore, le cose si fanno più facili.
I robot abitano il nostro immaginario da un pezzo; l’intelligenza artificiale senziente1 ha smosso i nostri sentimenti negli ultimi mesi, da quando un ingegnere di Google ha detto che un computer, un modello linguistico per costruire chatbot, cominciava a sentirsi una persona. Rappresentiamo e ci interroghiamo sui robot e sull’intelligenza artificiale da un pezzo: abbiamo costruito storie attorno a queste due cose, una delle due, peraltro, astratta come solo la parola intelligenza può esserlo, cose che esistono grazie ai chip e che grazie ai chip esprimono emozioni e un vasto catalogo di ragionamenti e discorsi. Ma il motore - il cuore - che agita l’intelligenza artificiale e che fa vivere i robot appare fuori da ogni nostra volontà di indagine, di rappresentazione. Senza chip non si darebbe il gioco dell’imitazione che le macchine, progettate da uomini sui generis, stanno allestendo in questi anni. E «la simulazione - ricorda Ernesto Franco, parlando di Octavio Paz e di letteratura - come la sorella gemella più pragmatica, la menzogna - è attività fortemente creativa. Inventa un universo che richiede una propria coerenza, ancorché virtuale». Quanta vicinanza con quello che stiamo dicendo e con ciò che l’intelligenza artificiale sta facendo alla nostra vita, grazie ai chip.
Il microprocessore non si è trasformato in un idolo nascosto dietro un’iconostasi in un presbiterio popolato di ingegneri della Silicon Valley, sebbene possegga tutte le caratteristiche per trasformarsi in una specie di immenso e minuscolo totem.
Abbiamo rimosso la presenza del chip dalla nostra vita, perché forse costituisce una presenza troppo ingombrante per attribuirgli il contorno di una qualche figura. Perché siamo di fronte a un oggetto, lo ripeto, che possiede una sua sconcertante radicalità, se ci fermiamo a valutarne il peso. Nel senso di una sua necessaria collocazione alla radice di gran numero di merci e servizi, e del funzionamento stesso del capitalismo.
Qualcuno potrebbe obiettare che non c’è ragione per raccontare un minuscolo frammento di silicio. Sarebbe come voler rappresentare una molecola, il gas o le viti. In effetti potremmo anche chiuderla così, pure se ci siamo sforzati a rappresentare il virus. Abbiamo sentito il bisogno di dare una forma al Covid19.
Credo esistano altre ragioni alla base della nostra rinuncia.
Forse la società della contingenza (come la definisce con acume Bruno Montanari), ha perso l’abitudine e l’interesse a fermarsi e a interrogarsi in profondità sulla radice delle cose, sul loro nucleo, per poi tentarne una rappresentazione formale. Sentiamo dietro l’angolo una paura indistinta, il terrore di scoprire la nostra crescente e consistente irrilevanza in molti aspetti dell’esistenza, nel mondo e nelle cose stesse, al crescere del dominio e della presenza dei chip. Scrivere o illustrare o disegnare i microprocessori, equivarrebbe a certificare una cospicua lateralità dell’essere umano, per tutte quanto abbiamo detto fin qui.
Esiste infine un’altra possibilità, penosa direi, che risiede nel potere simbolico del chip, che va oltre il potere effettivo. Il suo essere sineddoche è un modo per ricordare che l'oggetto semiconduttore rappresenta non solo lo strumento nodale dello strapotere della tecnologia sul mondo, ma anche il suo simbolo più elevato, più consistente, proprio perché invisibile. E un mondo che ha perso familiarità con i simboli - non li sappiamo riconoscere, e quando accade non sappiamo fermarci davanti a essi, non lasciamo che essi ci interroghino - è un mondo che ha anche perduto la possibilità e la capacità di rappresentarli. Con onestà dovremmo ammettere che abbiamo perso la significativa capacità di guardare le cose, pur standoci nel mezzo. Io spero e prego che un quadro, una scultura o un racconto si facciano carico di questo vuoto. Sento il bisogno che la letteratura riprenda ad indagare (quanto manca Paolo Volponi), a scoprire le radici della rivoluzione tecnologica che ci attraversa, a partire da ciò che la muove, e non solo dagli effetti che produce su di noi, sugli uomini. Effetti che, pur essenziali e ancora non del tutto dispiegati o scoperti, non descrivono fino in fondo la complessità della fase trasformativa (aggettivo molto caro a chi lavora nella Silicon Valley) che stiamo vivendo.
Azzardo un'ultima ipotesi di questa incapacità a rappresentare il microprocessore.
Vedo un conflitto tra la funzione ordinatrice del caos in una forma, funzione propria dell’arte, tra la resa formale quindi del disordine del mondo in un ordine chiuso e autosufficiente, in un piccolo e immenso cosmo, vedo un conflitto insomma tra questa funzione dell’arte e un oggetto che svolge lo stesso identico compito (con i miliardi di distinguo del caso, è ovvio). Non solo il gioco della simulazione e dell’imitazione (la frase di Ernesto Franco), ma anche una vera e propria funzione co-creatrice di altre cose, di mondi (il Metaverso), di relazioni tra le persone.
In fondo i microprocessori tentano costantemente di attribuire ordine e senso al disordine delle cose, degli uomini, del mondo, senza alcuna bellezza. O forse sì, non mi è ancora chiaro.
L'esito di questo conflitto non potrebbe essere l'impossibilità di raccontarlo e di raccontarne uno dei protagonisti per una sovrapposizione di ruoli?
Anche perché una storia che non abbia gli uomini per protagonisti o almeno un solo uomo, e nemmeno gli animali, gli dei o la natura, una storia di sole macchine, che non mostrano peraltro nulla di antropomorfo, rettangoli pressoché invisibili ed efficienti, è una storia davvero complicata da scrivere. Forse una storia impossibile.