Ciao magnolia,
come stai? Com’è andato questo terzo mese dell’anno? Ti godi lo sbocciare della primavera (perlomeno quello ufficiale, sulla carta, dato che sono già settimane che – almeno io – vedo alberi in fiore e tolgo ogni mattina uno strato di lana in più dai miei outfit)?
Credo converrai con me nel dire che le news del mese legate all’ambiente non siano delle migliori: avrai certamente avuto modo di leggere o ascoltare del rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, o Gruppo intergovernamentale sul cambiamento climatico), il corpo delle Nazioni Unite creato per “valutare la scienza del cambiamento climatico.”
Mini-spiegone sul report di Ipcc
Anche se non è proprio l’argomento della nostra passeggiata di oggi, due parole di riassunto a questo riguardo non ce le toglie nessuno: il report di Ipcc, redatto da 93 scienziatз, ci dice che siamo sull’orlo del baratro e dimostra che le attività umane hanno senza alcun dubbio provocato il cambiamento globale; ci ricorda, inoltre, che le 59 miliardi di tonnellate di emissioni di gas serra riscontrate nel 2019 dipendono in gran parte dal livello di ricchezza dei paesi. In pratica, le comunità più povere, che non hanno strumenti tecnologici ed economici per affrontare l’emergenza climatica, sono di fatto quelle più colpite.
Tuttavia, ci dicono lз autorз del report, c’è ancora un barlume di speranza: se limitassimo le emissioni drasticamente, tra il 2081 e il 2100, la temperatura globale potrebbe aumentare di 1,4 gradi nello scenario più positivo possibile, di 2,7 gradi in quello mediamente catastrofico, e di 4,4 gradi in quello peggiore. Quindi, l’obiettivo (secondo alcuni pareri già irraggiungibile) sarebbe quello di riuscire non soltanto a non superare gli 1,4 gradi, ma anche a mantenere il riscaldamento degli anni successivi non troppo distante da questo numerino. Come scrive Audrey Garric su Le Monde (tradotto per Internazionale n.1504), questo ci fa capire che “ogni frazione di grado ha un’importanza enorme e si traduce in eventi climatici estremi più intensi e frequenti”.
Il report propone delle macro e micro soluzioni che dovrebbero permettere ai singoli stati di avvicinarsi agli obiettivi preposti, andando a toccare i temi dell’energia, delle industrie, delle città e delle infrastrutture, delle acque e del cibo, della società…
Per esempio, si invita a ridurre in modo sostanziale l’uso di combustibili fossili, favorendo l’impiego di energie a basse emissioni come il fotovoltaico e l’eolico; pianificare in maniera migliore l'uso del territorio; migliorare le infrastrutture per la gestione dell'acqua e dei rifiuti; favorire diete sostenibili, e limitare lo spreco di cibo; migliorare l'assorbimento e lo stoccaggio del carbonio nell'ambiente urbano, etc; è interessante notare che questi suggerimenti, che solitamente vengono dati a noi in quanto persone singole, vengano rivolti ad un livello più “alto”, ossia a chi, tecnicamente, le persone singole le governa – gli stati.
Tuttavia, non è molto rassicurante vedere quanto i media italiani abbiano parlato di crisi climatica nell’ultimo quadrimestre (ne scrive Greenpeace qui):
“nell’ultima parte dell’anno (2022) il numero di articoli pubblicati dai principali quotidiani italiani in cui si parla esplicitamente di crisi climatica è diminuito rispetto al quadrimestre precedente, attestandosi a una media di appena 2,5 articoli al giorno. Il picco si è registrato nel mese di novembre, in occasione del summit sul clima di Sharm el Sheik (COP27) e della tragica alluvione che si è abbattuta sull’isola di Ischia.
In contrasto, aumenta invece lo spazio offerto dai giornali alle pubblicità dell’industria dei combustibili fossili e delle aziende dell’automotive, aeree e crocieristiche, tra i maggiori responsabili del riscaldamento del pianeta: la media è di oltre 6 pubblicità a settimana, cioè quasi una al giorno e circa il doppio rispetto al quadrimestre precedente.”
…detto questo, anche se è difficile immaginare come possa avvenire un sostanziale miglioramento delle condizioni del nostro pianeta, rimane sempre viva la speranza che chi può veramente fare qualcosa di significativo inizi a rendersi conto che il tempo inizia a scarseggiare…
In quest’ottica, penso che il libro di cui parleremo ad Aprile (dai, leggilo anche tuuuuu!) ci sarà utile per vedere la situazione da un’altra prospettiva…
Ma torniamo al presente!
Ad Impatto, abbiamo dedicato il mese alle piante, parlando di stagionalità dei fiori, dell’industria dei fiori (in questa imperdibile diretta con Sofia di viridarium.flowerfarm), di pratini all’inglese e di piante da interni. Insomma, questo mese il nostro team di comunicazione è fiorito con la primavera!
Per stare in tema, qui, si parla di verde urbano e di parchi, ma in un modo forse inaspettato…ti avviso già che oggi non ci saranno molti spunti pratici (che, in effetti, puoi trovare a tutti i link sopra), ma spero che la breve lettura di oggi possa stimolare i nostri neuroni e farci uscire un po’ dalla nostra zona di comfort.
Partiamo con una domanda esistenziale…quanto spesso ci ricordiamo che esiste anche un “altro” lato della medaglia?
Oggi butto sul tavolo un articolo tratto da una delle mie riviste del cuore – che peraltro ha già fatto capolino nella nostra newsletter, lo scorso anno, a seguito del teambuilding bolognese di Impatto: era stata una lettura di gruppo, che ci aveva permesso di confrontarci su quanto la nostra percezione positiva del verde urbano sia parziale.
La rivista è menelique e l’uscita cui ci riferiamo oggi, dell’autunno 2021, è la numero 6, Ecologie. Sarà un caso, sarà la bolla, sarò che sono monotola (cit.), ma l’autrice dell’articolo di cui parliamo è Sara Gainsforth – se ci leggi da un po’, ti ricorderai forse che è stata variamente citata in un po’ di newsletter. Il suo articolo si chiama Oltre il verde urbano: 5 paginette che sembrano facili facili, e invece poi no…
Ma insomma…di cosa parliamo? Facciamocelo dire, molto sinteticamente, da Gainsforth: piante al posto di persone.
…sediamoci, va. L’autrice ci da qualche altro indizio:
“La promozione del verde urbano è parte dei processi di ecogentrificazione, greenwashing e turistificazione. Intanto, a livello globale risorse naturali e terre sono sottratte alle popolazioni locali e destinate spesso al turismo, a spese della biodiversità e della parte più povera dell’umanità.”
Sì, hai ragione, ci sono tante parolone. Una da spacchettare più delle altre è “ecogentrificazione”. Che cosa si intende con questo termine? QCodeMag ne scrive in maniera approfondita qui: in pratica, è il processo attraverso cui gli aspetti della modernizzazione ecologica, della tutela dell’ambiente, e della crescita urbana 🤩 producono degli effetti indesiderati, come l’aumento dei costi degli alloggi nelle città e l’accessibilità limitata di alcune risorse (infrastrutture fisiche e sociali, servizi, aree verdi rinnovate, etc.) per i gruppi sociali più svantaggiati 😥
Insomma, le persone (e, su larga scala, gli stati, come ci ricorda il report di Ipcc) con meno risorse subiscono effetti negativi in ogni caso, perché i miglioramenti sociali, economici, urbanistici e tutte quelle cose che noi persone con un certo privilegio viviamo come miglioramenti non sono pensati per questi gruppi…
Tuffiamoci in un esempio interessantissimo: la creazione dei parchi pubblici.
Prima, però, dimmi: che opinione hai dei parchi pubblici?
Mi sa che ci accorgeremo presto di come questa domanda, che sembra così banale, abbia in realtà una risposta tutt’altro che semplice.
Personalmente (e semplicisticamente), ho a lungo pensato ai parchi pubblici come luoghi molto funzionali e utili, spazi in cui lз bambinз possono passare il pomeriggio con lз nonnз, lз adolescenti iniziare a sbaciucchiarsi sulle panchine, lз adultз comprare la dro…no, scusate questo non accade (irony alert!)...
Insomma, i parchi di cui ho goduto sono sempre stati segno di un certo stato sociale, cui il mio privilegio mi permette di accedere senza che io mi debba porre il problema di vedere questi elementi urbani da prospettive diverse dalla mia. Prospettive che, tuttavia, esistono…
Gainsforth, infatti, ci racconta che se, nel 19° secolo, i parchi pubblici erano l’unico spazio in cui le diverse classi sociali potevano entrare in contatto, è proprio l’élite urbana borghese a promuovere la creazione degli stessi, enfatizzandone “l’elemento moralizzante e la funzione di controllo sociale.” Lз urbanistз dell’epoca, infatti, ritenevano che i parchi avessero una funzione civilizzatrice delle masse, oltre che di miglioramento delle condizioni di salute della classe operaia……..🫠
È proprio in questo contesto che si pongono le basi per la creazione di Central Park. Eh sì, proprio lui, “il polmone verde di New York”, che nasconde una storia più problematica di quello che potremmo pensare.
Infatti, la costruzione di Central Park ha previsto:
l'espulsione di circa 250 famiglie della comunità multietnica di Seneca Village, abitata da ex schivз afroamericanз e immagratз irlandesi e tedeschз. Nel 1856 il comune espropriò il terreno, che era di proprietà dei membri della comunità, per farne un parco, facendo impennare il valore dei terreni circostanti. Per giustificare l’esproprio e l'espulsione della comunità afroamericana si disse che la zone era terra di nessuno, abitata da senzatetto. Così Olmsted (architetto del parco) descrive il terreno al momento del suo acquisto da parte del comune: “Difficilmente si può immaginare un sobborgo più sporco, squallido e disgustoso. Un numero considerevole dei suoi abitanti era impegnato in occupazioni offensive agli occhi della legge e vietate vicino alla città”.
(Scusa, qui faccio una mini-parentesi: mentre leggevo questa storia, pensavo a Le Cattive di Camila Sosa Villada. Se non hai già letto questa meraviglia, te la consiglio vivamente, anche se non parla propriamente di ambiente e sostenibilità [o forse sì, ma da un altro punto di vista?]. Se lo hai letto, invece, ti ricordi che Camila ci racconta di quanto i “miglioramenti urbani” di Parco Sarmiento abbiano influito in modo negativo sulla vita delle protagoniste?)
Gainsforth continua, definendo questo tipo di azioni come “greenwashing di disuguaglianze economiche e sociali, alla base di conflitti prodotti da usi escludenti e estrattivi dello spazio urbano e delle risorse naturali”. Ci avevi mai pensato a una definizione simile, per greenwashing?
Parlare di parchi comunali, però, evidenzia un ulteriore lato della medaglia – a questo punto, ci conviene parlare di cubi, più che di medaglie 🙈 – una contraddizione così evidente eppure così poco vista: le piante che vengono usate per rendere migliori quelle zone di città considerate degradate sono effettivamente funzionali soltanto quando addomesticate e tenute sotto controllo: le piante che crescono spontaneamente, quelle che sarebbero “naturalmente” al loro posto, infatti, producono degrado…
A questo proposito, Gainsforth ci propone un esempio tutto italiano, giusto per ricordarci che queste cose succedono anche a pochi passi da noi. Siamo a Trastevere, nel 2021: un comitato di quartiere decide di posizionare “una dozzina di vasi e piante di alloro lungo un tratto di marciapiede in via Natale del Grande dove erano solite dormire alcune persone senza dimora”; il testo del post social con cui viene pubblicizzata questa iniziativa menziona lo “stato di degrado della via, il bisogno di decoro degli abitanti e la necessità di un intervento per garantire l’igiene pubblica urbana”.
Ovviamente, nessun interesse verso le persone senza dimora, che dormivano in quella zona perché l’edificio su cui si affaccia il marciapiede è vuoto, permettendo loro di usufruire di uno spazio più “riparato” dal viavai e dal traffico e quindi, forse, di fare sonni meno travagliati.
Una frase che ho trovato molto significativa legge “il bersaglio della cittadinanza attiva dei comitati per il decoro non è mai la causa dei mali urbani (le ingiustizie sociali) ma i suoi effetti visibili”.
Possiamo applicare un ragionamento simile anche per i modi in cui affrontiamo la crisi climatica: gli effetti visibili sono importanti segnali d’allarme, che dovrebbero avere lo scopo di portarci (e portate chi ci governa, chi produce in modo insostenibile…) a guardare alle cause che li producono. Tuttavia, sono anche un’arma a doppio taglio, poiché è facile, come abbiamo visto, dimostrare di aver fatto qualcosa “rattoppando” qui e lì gli effetti visibili, senza però indagare cosa ci sia dietro.
Insomma, forse dovremmo cominciare a focalizzarci su un cambiamento sistemico, che lavori sulle cause dei mali invece che su come questi si manifestano. Che ne pensi?
Steps d’Impatto della lettura: 🦶🏽🦶🏽🦶🏽🦶🏽🦶🏽🦶🏽🦶🏽🦶🏽 e mezzo /10
La consigliamo alle persone a cui…piace uscire dalla propria zona di comfort per guardare a cose già conosciute con uno sguardo sempre nuovo.
Per lз più piccinз
Questa volta, torno con uno splendido albo, un po’ illustrato e un po’ scritto, intitolato Gli alberi e le loro storie, di Cécile Benoist e Charlotte Gastaut (trad. Camilla Diez; Gallucci Editore, 2019).
Al suo interno, troverete un sacco di storie sugli alberi, che popolano non soltanto i parchi urbani, ma anche le rovine e i deserti. Per scoprire il potere ambientale, culturale e sociale di queste piante legnose.
Oh, in realtà l’articolo prosegue con altri temi super💥, come il land e il green grabbing – ossia l'acquisizione, da parte di soggetti privati o di multinazionali o di stati, etc etc, di ampie zone coltivabili per produrre beni alimentari spesso destinati all’esportazione o per investimenti produttivi – ma oggi abbiamo già smosso abbastanza terreno (letteralmente), per cui ti saluto qui.
Se l’argomento ti è piaciuto, fammelo sapere (e vai a dare un’occhiata a menelique) 🐸
Ci sentiamo ad aprile!
Nel frattempo, buona fioritura 🌻
Giulia