Oggi Stay. è Caravaggio, che racconta il ruolo della donna nelle organizzazioni mafiose
di Paola Sireci
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La strage di Portella della Ginestra del 1947 per mano di Salvatore Giuliano e la sua banda, la strage di Capaci del 1992, l’attentato al parlamentare siciliano Salvatore Lima del 1992 e il successivo attentato a Paolo Borsellino a due mesi di distanza da quello a Falcone, la strage di via dei Georgofili avvenuta nel 1993 a Firenze, nei pressi della Galleria degli Uffizi, e tanti altri. Atti terroristici di natura mafiosa compiuti da Cosa Nostra, l’organizzazione criminale di stampo mafioso- terroristico nata agli inizi del XIX secolo e localizzata in più parti del mondo, in particolare in Sicilia, cui protagonisti sono innumerevoli: qualcuno più in vista sul palcoscenico della criminalità mafiosa - Salvatore Riina , Matteo Messina Denaro, Giuseppe Morabito, Bernardo Provenzano tra i più noti grazie anche alla risonanza mediatica – , altri meno conosciuti ma altrettanto attivi. Poi ci sono loro, che svolgono un ruolo significativo, centrale, nel compimento della criminalità di stampo mafioso, ma di cui non si parla abbastanza, o mai. Le donne.
Mogli, madri, sorelle, figlie mai nominate, rappresentate, considerate, di cui a fatica se ne riconosce l’esistenza. Nell’immaginario comune le donne sono una cornice, uno sfondo nel mondo della criminalità organizzata di matrice mafiosa, coloro che generano la prole, spesso sottomesse da un sistema maschilista che le vede come semplici contenitori di idee e pensieri mai espressi. Per scrivere questo articolo mi sono chiesta se fosse realmente così, se le convinzioni comuni corrispondessero alla realtà e per rispondere mi sono avvalsa della collaborazione e dell’esperienza della giornalista francese Marcelle Padovani. Corrispondente di politica francese e politica interna italiana, specializzata in criminalità mafiosa, in particolare Cosa Nostra, e che nel 1991 ha contribuito alla stesura del libro “Cose di Cosa Nostra” di Giovanni Falcone, Marcelle mi ha fornito interessanti spunti di riflessione e nozioni sul mondo mafioso di cui non ero al corrente.
Effettivamente il ruolo della donna all’interno dei clan mafiosi si allontana totalmente dal concetto di subordinazione al quale si può pensare in riferimento alle organizzazioni criminali di natura patriarcale: uomini attorno a un tavolo che studiano e organizzano la prossima strage grazie all’aiuto di collaboratori fedeli che la portano a termine. Forse, fino agli anni Novanta era così e lo confermano i 100 attentati registrati nel 1991 - in confronto ai 5 registrati, invece, quest’anno -, alcuni dei quali sono stati citati all’inizio dell’articolo e di cui Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) racconta nel suo film “La mafia uccide solo d’estate” del 2013.
Infatti, la collega mi conferma quanto sia cambiata l’azione criminale negli ultimi trent’anni in favore di una mafia più economica, in un’ottica di inserimento nel mercato. Considerando che il suo unico Dio è il profitto, fino agli anni Novanta la mafia e suoi i criminali hanno tentato di ottenerlo mediante attentati plateali, oggi sostituiti da metodi capitalistici come corruzione, maltrattamento del mercato del lavoro, non pagamento dell’iva, etc.., e oggi, probabilmente, mettere da parte la violenza terroristica può costituire un vantaggio per la mafia per allontanarsi dalla sua decapitazione da parte dello Stato, come l’esperienza di Cosa Nostra, e non solo, insegna. In questa nuova dinamica del mondo le donne si sentono ancora più tutelate e a proprio agio, e ciò incide ancor di più sulla loro emancipazione, malgrado il femminismo, la rivendicazione dell’autonomia e identità femminile e sessuale non abbia mai sfiorato la mente di una donna integrata nel mondo mafioso che, al contrario, riconosce con fierezza il suo ruolo all’interno del clan.
Esse, infatti, fin dalla nascita della mafia nel 1815 hanno sempre mantenuto un ruolo tradizionale e centrale nella sfera privata, come educatrici e trasmettitrici del codice deontologico mafioso, portatore di valori distopici e antitetici a quelli insegnati nelle scuole: vendetta, omertà, violenza, solidarietà interna e sanzione dopo il tradimento ma, soprattutto rispetto per la famiglia – intesa come gruppo umano – e necessità di sfruttare lo Stato per il profitto. Celebre, rispetto la funzione pedagogica delle donne nelle organizzazioni mafiose, è Antonietta Bagarella – conosciuta come ‘Ninetta’ – che, parallelamente al ruolo di moglie di Totò Riina, ha mantenuto la sua professione di insegnante nelle scuole. A questo ruolo pedagogico, tuttavia, si affianca l’azione criminale delle donne che, in quanto portatrici dei valori mafiosi, conoscono meglio degli uomini quel codice deontologico trasmesso ai figli e che, dunque, gli permette di poter attuare in prima persone azioni criminali senza alcuna difficoltà. Una volta vedove, o quando i mariti e i figli vengono portati in carcere, esse prendono le redini del clan, portando avanti l’attività di famiglia, attraverso la trasmissione di messaggi dal carcere all’esterno o semplicemente ottenendo ruoli ufficiali che prima erano tenuti nascosti.
È il caso di Giuseppina Sansone, moglie del boss Francesco Tagliavia, accusata di aver gestito gli affari del marito dopo l’arresto, Carmela Rosalia Iaculano, Maria Filippa Messina – moglie di Antonino Cinturino, fu la prima donna alla quale fu applicato il regime del 41 bis nel 1996-, Anna Patrizia Messina Denaro condannata per associazione mafiosa. E come loro tante altre.
Pensare, dunque, alle donne appartenenti ai clan mafiosi come sottomesse o schiave di un sistema maschilista è errato: tutto al più assumono un ruolo di potere perché da esse dipende la buona maturazione del decalogo mafioso e la crescita dei figli, in aggiunta al fatto che, una volta sposate, diventano confine che il nemico o semplicemente altri mafiosi non possono varcare. Proprio per questo motivo e per lo stile di vita che conducono, è alquanto difficile pensare che ci siano donne che, una volta diventate vedove o aver il marito o figli in carcere, diventino collaboratrici dello Stato, sebbene lo Stato stesso premia coloro le quali si affidano alla giustizia pubblica: Piera Aiello, moglie del boss mafioso Nicola Atria (ucciso nel 1991), è stata eletta deputata nel 2018 con il movimento 5 stelle, ad esempio.
Coraggio, risolutezza, intraprendenza e libertà sono le caratteristiche principali che le donne appartenenti alle organizzazioni criminali di stampo mafiosi devono possedere, le stesse qualità che emergono nel racconto biblico contenuto ne “Il libro di Giuditta” appartenente al Vecchio Testamento e rappresentato da più artisti nel corso della storia: la decapitazione di Giuditta nei confronti del condottiero assiro Oloferne, mandato dal re assiro Nabucondosor per prendere in ostaggio la città di Betulia. Oloferne si invaghisce di Giuditta la quale libera il suo popolo seducendo e, successivamente, decapitando il condottiero. Caravaggio realizza nel 1602 la tela “Giuditta e Oloferne”, divenuta celebre per la tensione emotiva della protagonista che decapita il capitano assiro sedotto con l’inganno attraverso una brutalità atipica per una donna. La stessa forza che le donne appartenenti ai clan mafiosi ottengono come eredità dai mariti e non identificabile nel processo di femminismo o nell’emancipazione femminile tipica dei nostri tempi e ben lontana dall’immaginario mafioso ma, semplicemente, nella rivendicazione e nel rispetto di un ruolo, del loro ruolo.