Caro lettore,
per te che sei nostro abbonato e usufruisci solo dei contenuti gratuiti (gli editoriali bisettimanali), o per te, che ci stai leggendo per la prima volta, abbiamo una sorpresa! Puoi avere accesso e leggere tutti i nostri editoriali e le nostre rubriche a soli 9,00 euro l’anno invece che 30,00.
No, non è un pesce d’aprile, è la promo di aprile.
Se ti piacciono i nostri articoli, allora fai l’upgrade, puoi annullare in qualsiasi momento!
Ascolta qui l’articolo in formato audio!
Quattro donne e un bambino riuniti attorno a un tavolo e un capofamiglia, un nonno-padre che, al compimento degli undici anni dei componenti della famiglia, li inizia ad abusi fisici e psicologici da parte di terzi, sotto remunerazione, un business di pedofilia e prostituzione che li rende una vera e propria azienda di famiglia distopica. Eppure è realtà: il regista greco Alexandros Avranas, ispirato da una storia di cronaca famigliare in Germania, ha brillantemente diretto nel 2013 il film Miss Violence, in concorso alla 70esima mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia e vincitore del Leone D’Argento per la regia. Attraverso scene disturbanti al limite dell’indignazione, Avranas rappresenta perfettamente una dinamica famigliare al limite – che approda con il suicidio della figlia appena undicenne venuta a conoscenza del suo destino - ma molto comune, in varie sfumature, in passato e ai giorni d’oggi.
Che cos’è la “tratta digitale”?
Quando si parla di sfruttamento minorile si fa comunemente riferimento all’attività lavorativa che priva bambini e bambine della loro infanzia, della loro dignità e che influisce negativamente sul loro sviluppo psico-fisico (come definito dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro) e che si sviluppa in varie forme di sfruttamento e abuso dovute a condizioni socio-economiche. Negli anni esso si è configurato rispettando questa definizione, testimoni anche le innumerevoli tele di artisti come Van Gogh, le opere letterarie del Verismo italiano come Rosso Malpelo o la Storia stessa che ci insegna e segna continuamente e costantemente le sperequazioni sociali da cui derivano ingiustizie che riguardano lo sfruttamento minorile. Dal rapporto “Schiavi invisibili” del 2021 di Save the Children è emerso quanto la tratta degli esseri umani sia la più diffusa dopo quelle delle armi e della droga e analizza in particolare le condizioni di bambini e bambine, adolescenti e giovani vittime o potenziali vittime di sfruttamento o tratte all’interno del nostro Paese, anche alla luce dell’impatto che la pandemia ha avuto su queste condizioni, decisamente accentuate nella sfera domestica. L’Europol, infatti, nel 2021 ha evidenziato 28.758 segnalazioni con 6.139 nuovi casi che fanno emergere un fenomeno tanto interessante quanto preoccupante: le organizzazioni criminali attive nelle tratta di esseri umani sono entrate nel circuito indoor portato dalla pandemia, entrando in un nuovo abisso definito e-trafficking o, tradotto in italiano come il Governo ci obbliga, tratta digitale, un’integrazione delle tecnologie nei circuiti preesistenti della tratta di esseri umani.
Sembra qualcosa di tanto lontano dalle nostre vite, un fenomeno cui bisogna fare attenzione dal momento che siamo l’era 2.0 che vive sugli smartphone e utilizza il Web per svolgere qualsiasi attività quotidiana, dal lavoro al tempo libero, fino alla condivisione della propria sfera privata, eppure è un fenomeno cui assistiamo quotidianamente senza esserne – sempre – consapevoli. Già, ma cos’è praticamente la tratta degli esseri umani? Secondo il protocollo della Nazioni Unite, si intende il
“reclutamento, trasporto, trasferimento, accoglienza o accoglienza di persone, mediante minaccia o uso della forza o altre forme di coercizione, rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di posizione di vulnerabilità o donazione o ricevere pagamenti o benefici per ottenere il consenso di una persona che ha il controllo su un’altra persona, a scopo di sfruttamento ove lo sfruttamento comprende, come minimo, la prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, schiavitù o pratiche simili, servitù o prelievo di organi o altri tipi di sfruttamento”.
Potrebbe sembrare una definizione esagerata rispetto la società e i tempi che stiamo vivendo ma, considerando i nuovi media e le nuove tecnologie e, soprattutto, l’uso che se ne fa e il loro continuo sviluppo è inevitabile pensare a quanto essi stiano prendendo il controllo di situazioni delicate che possono mettere in pericolo le nostre vite ma, ancor di più quelle dei nostri figli e dei minori in generale. Quante volte, durante lo scroll dei feed di Instagram, ci imbattiamo in video o foto in cui brand o prodotti sono sponsorizzati da profili più o meno noti, senza che questi ci mettano direttamente la faccia ma, al contrario, la facciano mettere ai loro figli? Un meccanismo pubblicitario secolare secondo cui la pubblicità deve emozionare per fidelizzare col cliente. Ma come farlo? Attraverso copy che stimolino la nostra sensibilità e attraverso meccanismi che smuovano le nostre emozioni, dalla rabbia, al divertimento, fino alla tristezza. In questo i social sono diventati dei guru e le aziende hanno trovato terreno fertile per insediarsi nelle nostre vite e trovare fidelizzazione, vendita e crescita professionale. Da questo punto di vista essi hanno trovato modo per far girare l’economia anche quando il mondo era fermo per via della pandemia. Ma le quinte di questo palcoscenico così lussuoso, fatto di divertimento e creatività nasconde – o forse no – una realtà preoccupante che trova le radici proprio nello sfruttamento minorile.
Il ruolo dei minori nelle sponsorizzazioni
Storytelling di cui i bambini, spesso figli minori, sponsorizzazioni di prodotti per l’infanzia e non solo in cui l’infanzia, appunto, si annulla giusto il tempo di un click al fine di monetizzare quel contenuto. Gli influencer, che firmano i contratti con le aziende per cui sponsorizzano prodotti, ormai corrispondono alla figura genitoriale di quei neonati, infanti, pre-adolescenti mostrati sullo schermo degli smartphone o computer – cosa che non accade nel caso della pubblicità televisiva in cui i minori diventano “attori” dello spot pubblicitari. Essi sono consapevoli del fatto che l’immagine del loro figlio/a sia alla mercè di tutti sia dal punto di vista personale (come nel caso dello sharenting), ma specialmente dal punto di vista professionale e hanno trovato il modo di creare intrattenimento attraverso i loro figli, mediante la monetizzazione dei contenuti che li riguarda. I minori diventano, quindi, il mezzo per il profitto dei genitori e sebbene le circostanze che determinano questa dinamica non siano mosse da costrizioni e abusi, chissà se questi genitori sono consapevoli dei rischi che riguardano i loro figli e, delle conseguenze che un’esposizione eccessiva può comportare.
La cultura social come la cultura Rom
La società occidentale spesso si autodefinisce civilizzata perché conduce uno stile di vita che rispetta valori quali la dignità, il decoro, norme sanitarie e ricorre all’istruzione per la crescita personale e dei propri figli, spesso trovandosi a disagio quando entra a contatto con culture differenti dalla propria, avviando una “caccia alla diversità”. L’incontro con la cultura Rom, ad esempio, cui radici sono secolari, si scontra spesso con la nostra per le modalità con cui essi conducono la loro vita. Un aspetto che crea indignazione è la condizione dei figli all’interno delle famiglie clan, considerati sfruttati dagli stessi genitori per chiedere l’elemosina per strada o lavare i finestrini delle macchine al semaforo. Andando a fondo nella storia di questo popolo, tuttavia, possiamo riscontrare quanto questa scelta di vita affondi nella necessità di collaborare per contribuire a un reddito altrimenti molto povero e questo non avviene quasi mai attraverso costrizioni ma, il più delle volte, sono gli stessi figli a offrirsi volontari. È innegabile, tuttavia, che il bambino debba trascorrere la propria infanzia in modo ingenuo e spensierato senza farsi carico delle problematiche famigliari che riguardano gli adulti, ma è altrettanto vero che la cultura Rom, dalla sua nascita nel Medioevo in India, si è sempre scontrata con pregiudizi, discriminazioni e persecuzioni che l’ha obbligata a sviluppare dei meccanismi di autodifesa dal punto di vista sociale, portandola a compiere delle scelte necessarie come conseguenza alla non inclusione.
Ma Instagram, che nasce come social per promuovere l’arte attraverso la fotografia istantanea e non solo, sta diventando un set pubblicitario in cui i genitori usano i loro figli per fini economici, mascherando questa dinamica con reel creativi, sorrisi e storytelling che li rendono parte attiva di quel contratto firmato con l’azienda di cui loro vedranno solo le conseguenze nel lungo termine. Schiavi invisibili, o forse no.
Prima di lasciarti però ecco alcuni consigli sulle COSE CHE sto leggendo, ascoltando, gustando in questo periodo.
Sentiti libero di lasciarti ispirare e inoltrarlo agli amici.
1. Sto ascoltando
Indagini, il podcast di Stefano Nazzi che racconta alcuni dei più noti casi di cronaca nera italiana.
2. Sto leggendo
Kobane Calling, il reportage grafico di Zero Calcare sui suoi viaggi al confine tra Turchia e Siria.
4. Sto gustando
La vita in alcuni posti di Roma:
Osteria Sette, a Montesacro dove puoi mangiare una carbonara cremosa
Le carré française, nel cuore di Prati, dove puoi assaporare la Francia a 360°
Konnichiwa, sushi restaurant dove puoi fare un salto in Giappone tra manga e biglietti del destino