UNA VITA COME TANTE — Hanya Yanagihara
(Ed. Sellerio, traduzione dall’inglese di Luca Briasco; fotografia in copertina di Peter Hujar, 1969)
Ho parlato di questo libro “in lungo e in largo”, mentre lo leggevo, come se il fiume che riversava in me avesse bisogno di allargarsi anche altrove, per trovare spazio. Eppure, una volta terminato, non ho avvertito più quella urgenza; ora sento che ve ne voglio parlare, perché, Dio mio, se è un libro di cui parlare, anche se non riuscirò a rendere esattamente, già lo so, il viaggio che è stato — il limite delle parole è anche la loro più grande potenza: creano sensazioni, emozioni, che poi sono libere e assumono forme diverse e inserirle nuovamente in una parola, quando si sono provate, è in qualche modo limitante; dicevo, appunto, che voglio parlarvene, ma quel fiume non lo sento più, insistente e esigente, come se si fosse calmato: come la sensazione di quando si guarda un tramonto sgocciolare via. Sai che tra poco farà buio, sai anche che non lo puoi afferrare, che è una lotta inutile, e allora ti siedi e lo guardi e in qualche modo questo ti lava via i residui di una battaglia che sai di non poter vincere e senti una sorta di pace.
Così.
Mi scuso, perché l’email sarà lunga, ma non sono riuscita a dare “giustizia” a questo libro in altro modo: vi ringrazio sempre quando “mi leggete”, ma in questo caso ancora di più. Non “ci sentiamo da un po’”, posso usarla come scusante?
Dopo l’ultima foto, c’è un’ultima riflessione che vi invito a leggere solo se avete letto il romanzo o se non “vi importa” di sapere come finisce — a me capita con le serie-tv, di volere sapere “a cosa vado incontro”.
Accanto alla nostra solita linea verde, troverete delle citazioni o alcuni appunti che ho fatto durante la lettura.
Grazie sin da ora
e il solito abbraccio, ma in anticipo.
Per chi ama scrivere, ci sono dei momenti topici e uno di questi è quando, leggendo, esclami “ecco, è così, così, che vorrei saper scrivere”: l’incontro con una scrittura così empaticamente connessa a noi è potente, anche se in un certo senso ti da un senso di impotenza perché ti sembra impossibile anche solo pensare di poter arrivare a scrivere così.
Prima di Hanya Yanagihara, solo Emmanuel Carrère (di cui abbiamo parlato nella prima newsletter di gennaio) mi aveva fatto riverberare nelle ossa quella frase; Hanya Yanagihara aggiunge, mi sembra, un qualcosa in più, un linguaggio più metaforico, con una capacità evocativa incredibile, e l’uso di periodi più lunghi, dosando però il tutto sapientemente, e questo riesce nella mia sensibilità ad aderire maggiormente.
Mi è sembrato, spesso, uno stile poetico, così come mi ha colpito molto la dolcezza e la tenerezza che traspare in alcune pagine; non ho mai avvertito stridere nessun accostamento, mai sentito artificioso alcunché: una corrente di parole che segue il suo corso, come se l’autrice non le avesse mai dovute cercare. Come il “ma” segue la “virgola”, così le sue parole sembrano condividere delle regole grammaticale scritte su di loro.
So che alcuni ne hanno criticato la lunghezza, ma io l’ho trovata essenziale, funzionale alla storia, funzionale al lettore. Con una operazione chirurgica, potremmo selezionare solo quei capitoli dove c’è un “mutamento”, un plot-twist: avremmo un romanzo più breve, la storia nei suoi snodi di fatto sarebbe la stessa, ma si avrebbe avuto la possibilità di comprenderla? È come quando si pretende di aver inquadrato una persona, di averla “capita”, guardando alle tappe della sua vita, guardando i “dati concreti”: in realtà, però, sovrapponiamo noi stessi e il nostro vocabolario, il nostro linguaggio, a quei dati e quella persona non l’abbiamo affatto compresa, spesso, anzi, non ci abbiamo neanche provato, non ci siamo messi neanche in ascolto.
Tutti i libri, penso, aspirano a far vivere la vita narrata al lettore, non solo a fargliela “leggere” — che poi “leggere” non comporta questa simbiosi di significati? —, ma le tematiche di questo romanzo sono così vaste, magmatiche, così difficili, che il lettore non deve solo vivere la storia di Jude, ci si deve immergere sino ai gomiti, svestire le proprie vesti, per quanto possibile, e avvicinarsi alla sua pelle, almeno quel tanto da “immaginare come potrebbe essere”: la lunghezza del romanzo è mettersi davvero all’ascolto di Jude, è sedersi, dedicargli del tempo, e questo tempo, anche in termini di numero di pagine, è essenziale per poter dimenticarsi di sé — e si dimentica, spesso, che l’empatia comporta anche questo: mettere a disposizioni parti di se, ma accantonarne altre; questo sembra una limitazione, invece è qualificazione diversa di esse.
Così, io consiglio per questo di leggerlo lentamente, per quanto in alcuni momenti sia difficile: una notte ho dovuto finire un capitolo perché “non ce la facevo più”, alcune volte non l’ho letto per qualche giorno; per l’ultimo capitolo mi sono data una scadenza.
L’autrice ti aiuta in questo, perché passato e presente — alcune volte forse anche futuro sotto forma di lettere — danzano tra le pagine e, senza accorgerti come, quei personaggi li vedi crescere, li “riconosci” crescere, come se ad un certo punto potessi metterti con loro a discorrere insieme dei “tempi passati”.
Il presente indicativo spesso irrompe, particolarmente con il personaggio di Jude: porta con sé una lucidità disarmante e evoca una certa rigidità che è propria anche del personaggio.
Jude, Willem, Malcom, JB si conoscono al college e la loro amicizia prosegue per tutta la vita; l’amicizia per quella che è, non per quella che in adolescenza, o anche al college, si pensa che sia: una salda fratellanza che si è convinti non potrà mai essere spezzata. All’inizio questa sensazione è molto potente, ti sembrano quattro persone che vinceranno sempre contro il mondo — loro si sentono così, ma si parla di vita in questo libro e i tasselli su cui costruiamo le relazioni da giovani possono non essere gli stessi su cui basiamo, o abbiamo bisogno di basare, l’amicizia da adulti.
Nel corso del tempo, dunque, questa resiste, ma muta e forse accettare che l’amicizia possa assumere tante forme, pur restando vera nel suo farlo, è una di quelle cose “da adulti”, accettare i propri limiti e quelli degli altri, accettare che possiamo ricercare le persone che ci sembrano più simili a noi, senza inquinare l’amicizia, o meglio il suo concetto, con persone a noi “diverse” e rendersi anche conto che non farlo ci fa un torto, che ci blocca in una dimensione che non può più essere e ci fa sentire sempre inquieti, non capiti.
Crescendo, la vita ci cambia, ci scopre, e relazionarsi diventa una partita a scacchi dove non ci si possono permettere troppi “scacchi matti”, dove, se non si condividono le stesse regole, giocare “non è più divertente”.
Della giovinezza, in questo romanzo, si parla anche con riferimento alla incertezza di quegli anni, alla pressione sociale alla felicità che può farti sentire incapace e che forse non ti prepara neanche ai “compromessi della vita”, alle paure e ai dubbi di quando tutto potrebbe diventare, come non diventare.
Penso ai compromessi della vita adulta, a quanto in queste pagine emerga la fatica di arrivarci, la consapevolezza che deve accompagnarli, la disillusione che necessariamente li (in)tinge.
Perché nessuno ce lo dice? Perché nessuno ci insegna a imparare a vederli e a farli propri? E penso all’importanza che quei compromessi siano parte di una vita che poi è fatta di altro, la cui sostanza è poi ciò che ricerchiamo. JB l’amicizia, Willem e Jude la casa che sono per l’altro e Malcom, mi sembra, la tregua del volere quello che si ha scelto.
Penso ai pensieri da adulti: al peso che hanno su Jude, a come Willem pensi per due, alla tranquillità che sembrano dare a Malcom, a come JB, invece, ne sia tormentato.
Penso a Malcom e ai suoi genitori; penso che, forse, quando gli altri sembrano avere così chiaro chi siamo o siamo destinati a diventare, arriva quel momento nell’età adulta in cui definirsi fa così paura da rimanere bloccati.
Penso a JB, all’evasione che prova nella sua arte, a quanto si abbia bisogno di trovare qualcosa che sia fatto “della nostra stessa materia” per sentirsi vivi.
E se ne parla anche con riferimento ai modi in cui si cerca di rimanere saldi quando tutta questa incertezza sembra una corrente destinata a sradicarti: dei modi che si sono trovati, dei modi che ci hanno insegnato.
“Ciascuno di loro cercava una forma di conforto, qualcosa che gli appartenesse e che tenesse lontane la grandezza terrificante e l’impossibilità del mondo esterno, lo scorrere implacabile dei minuti, delle ore, dei giorni.”
Cercare un controllo, quando tutto sembra incontrollabile.
Malcom e JB sono i personaggi più in secondo piano, sono gli amici con cui hai passato tantissimo tempo, ma con cui poi “ti perdi un po’”: quando li rivedi, è come se li avessi visti il giorno prima, certo, e nelle loro vite puoi intravedere quelle radici che hai imparato a conoscere, sulle quali, magari, ti sei seduto con loro per snodarle: rimane, però, un velo, qualcosa che non ti permette di “afferrarli sino in fondo” e creato da una distanza, empatica, di dialogo, di vita.
Così segui Malcom e JB nelle loro vite, ma concentrandosi maggiormente l’autrice su Willem e, in particolare, su Jude, avverti quella “distanza”, perché di loro non si sanno tante cose.
Jude.
Non è un segreto che questo libro parli di dolore.
“Meraviglioso e dolorosissimo” è come molte persone hanno definito questo romanzo, quando hanno saputo che avrei iniziato a leggerlo. Ed è vero.
Esternamente.
Esternamente, Jude è un avvocato — e le poche pagine dove si parla del diritto sono a mio avviso molto belle, una persona molto intelligente, silenziosa, pacata, con una disabilità, avendo subito un “infortunio” in macchina che gli rende difficile camminare correttamente, e una persona molto riservata, su di se e il suo passato.
Internamente.
Internamente, Jude è una galassia. Una galassia a cui cerca disperatamente di dare un ordine, per contenerla.
Il suo passato è tragico — le tematiche trattate sono molto forti, e penso sia un aspetto da segnalare — e, con una metafora davvero potente, l’autrice ne fa delle “iene”, al suo inseguimento.
Nella prima newsletter di quest’anno abbiamo parlato del dolore,
Spesso pensiamo che il silenzio possa affamare il dolore, sotterrarlo con un peso opaco. Ricoprire l’erbaccia sino a che non soffochi. In realtà, però, il silenzio lo alimenta, perché non è mai involucro davvero vuoto: il dolore che preme, pone sempre delle domande alle quali inevitabilmente cerchiamo di dare una risposta, come per “zittirlo”, per sopravvivenza, per l’istinto di mettersi in ordine e riavere il controllo: se non riusciamo a trovare una lingua con cui tradurlo, se non troviamo gli strumenti per farlo, quel terreno che vi gettiamo sopra, credendolo silenzio, in realtà si riempie di quelle convinzioni di chi quel dolore lo ha causato o di risposte sbagliate — perché come si fa a dare una “risposta” corretta a qualcosa che non si è ancora in grado di capire?.
Con quel concime, il dolore si fa quel qualcosa di cui abbiamo paura. Le radici crescono e di queste facciamo fondamenta di tante altre cose: ci costruiamo infinite “case sull’albero” dove viviamo, dove ci rifugiamo, dove pensiamo di poter capire e vedere tutto.
Estirpare una piantina che è così radicata non è facile.
come non sia un mostro, ma possa esserne inglobato, se non trova non alfabeto condiviso.
Soprattutto davanti a eventi traumatici e da bambini, il dolore è ancora meno comprensibile, una massa informe che rivendica qualcosa che non si è in grado di dargli. Inconsapevolmente, vi diamo delle risposte e quanto è importante che quelle risposte siano “giuste” lo si capisce solo da adulti e anche capirlo è una fortuna, una possibilità che non sempre ci si da o che si ha.
“Non fare del silenzio una abitudine” penso sia una delle tante frasi rilevatrici di questo romanzo, una chiave di lettura imprescindibile.
Jude non riesce a parlare del suo passato, del suo dolore, e una serie di circostanze lo rende ancora più difficile (in questo libro, il tema fortuna/sfortuna inevitabilmente viene a galla, ma a mio parere va orientato nella sua funzione per poterlo comprendere); l’istinto di sopravvivenza che sente lo porta a cercare di porre ordine a quella galassia che ha dentro, a “stilare” alcune regole — e la similitudine con il mondo del diritto è significativa — a partire da alcune convinzioni che lui sente intimamente vere e con una rigidità difficile da scardinare, costruita su anni.
Fonda su quelle regole il tentativo di cancellare il suo passato, di creare un muro, quasi per “separarsi” — lui dice “chi è stato” perché si identifica con il suo passato —e questo gli costa anche tantissima fatica: ci si rende conto di quante energie mentali e fisiche impieghi, di quanto sia stancante e sfiancante mantenere intatto quel “silenzio”, nel tentativo di separare il prima e il dopo, sempre nell’allerta di non dare indizi e nel non lasciarsi andare. Tutto, per mantenere l’impalcatura.
Così, tutto ciò continua a nutrire di convinzioni sbagliate, in una sorta di silenzio-assenso che è un circolo continuo, il dolore
e il dolore si fa iena.
Il tema del silenzio è anche il tema dell’abitudine, al silenzio, che si da non solo a se stessi, ma anche agli altri.
Jude esternamente è riservato e impone quel contratto che lui stesso ha stipulato internamente con il suo mostriciattolo del dolore anche agli altri. E così, interno e esterno si mescolano.
È un tema difficile, quello dello stare accanto a una persona che soffre e non ne parla espressamente: a seconda della sensibilità di chi gli sta attorno, esso prende delle sfumature diverse, ma si nota sempre la fragilità umana nel non voler sentire certe risposte, nell’aver paura del loro carico emotivo, nell’aver paura di dover imparare a maneggiare un dolore altrui, di dover imparare un nuovo concetto di “accanto”: la fragilità umana del non riuscire a essere sempre “coraggiosi”, di quanto sia difficile capire quali confini si possano, forse si debbano, valicare e quali no — perché anche questo può essere dannoso.
Penso a Jude. Al silenzio e alle sue radici che si fanno prigioni. All’abitudine che ci si da e che si da agli altri — un accordo tacito da cui è difficile uscire. Ai modi in cui Jude parla da solo e che irrompono anche nella vita degli altri.
Il dolore di Jude si fa indicibile, ma non è affatto silenzioso: lo giudica con parole che lui sente vere e che rende infrastrutture; è un dolore che non riesce a trovare sollievo, ma che trova vita, che, visto che non può farsi parole tangibili da poter condividere, su cui piangere insieme, magari, si ammanta di convinzioni che di quel dolore non sono spiegazioni, ma tentacoli.
E per quanto spesso siamo convinti che quei tentacoli non li veda nessuno, in realtà irrompono anche nella vita degli altri.
Ed è un dolore che rende quella galassia troppo ingestibile e che trova nel dolore fisico una regola per farlo.
La fisicità è un altro protagonista di questo romanzo, in tutte le sue forme.
Il dolore fisico accompagna Jude nell’arco di tutta la narrazione, è la prima forma di dolore che il lettore scorge, pur senza capirla inizialmente e diventa per Jude un promemoria di un passato che così si fa spesso presente, ma nello stesso tempo è anche il modo in cui Jude riesce a riportarsi a se stesso, a fare sbiadire le iene, a non lasciarsi rubare da esse, in una logica complessa e dolorosa.
La fisicità è qualcosa che gli ricorda cosa gli è stato preso, ma nello stesso tempo qualcosa che è riuscito poi a sottrarre, che gli appartiene.
La rigidità e metodicità irrompe spesso nella narrazione quando si tratta di Jude: come accennavo prima, il modo indicativo presente divide quasi quella sfera esterna da quella interna — ed è qualcosa che si coglie solo leggendo.
Quello che è rigido non è sempre stabile, però.
E non solo la vita che irrompe, ma anche la vita stessa a cui Jude coraggiosamente e in uno slancio che per me è il vero protagonista di questo romanzo si apre, può buttarlo giù. E si aprono le prigioni delle iene. La galassia diventa troppo caotica.
Forse è su questo aspetto che potrei muovere una umilissima “critica” a questo romanzo: alcune scelte le ho trovate “inutili”, come quando vai a sottolineare una stessa volta con lo stesso colore uno stesso concetto; il dolore alcune volte è rincarato in un modo che non riesco a collocare, a capire, e in qualche modo ad “accettare”.
Penso all’importanza di spiegarsi il proprio dolore, per riuscire a spiegarlo agli altri.
Perché, vedete, per me questo libro parla di lotta per la vita e l’amore in un modo così potente perché assurdo.
Assurdo perché, ne sono convinta, se siete arrivati sino a qui e non avete letto questo romanzo (o lo avete letto e non siete d’accordo), starete pensando “perché dovrei leggere un romanzo simile” — e io, certo, ho parlato del dolore che c’è, ma l’ho solo accennato; assurdo perché è inimmaginabile la lotta di Jude per la vita e così essa sgorga da tutto il libro — ed è per questo che, forse, “lo dovreste leggere”.
Jude è stato “assurdamente” “sfortunato” in parte della sua vita e poi “assurdamente” “fortunato” dopo, nelle persone che ha incontrato, nell’affetto che ha incontrato — se vogliamo, anche economicamente il che non è da sottovalutare perché gli permette di prendersi cura della sua salute compromessa.
Questo terreno dell’“assurdo” è il terreno perfetto per quel contrasto che fa emergere la lotta per la vita, anche nelle sue più blande manifestazioni, come protagonista: un goccia di vernice bianca su un cartoncino nero.
“Ma forse, pensa, non è ancora troppo tardi.”
— pg. 1061, “Una vita come tante”
In questa lotta, una persona che gli sta sempre accanto è Willem, uno di quei personaggi difficili da dimenticare, forse per certi aspetti persino più di Jude.
Willem ha un passato molto diverso da Jude: il dolore arriva nella sua vita presto, ma indirettamente, nella malattia di suo fratello. Davanti a dei genitori che, per ragioni che non ci è dato sapere, sembrano aver assunto il ruolo di genitori, ma non “sentirlo”, non riempirlo di dimostrazioni emotive - che infatti Willem sente assente -, lui, come un liquido che occupa lo spazio che sente vuoto, diventa una persona empatica, profondamente gentile e capace di leggere “oltre”, di una attenzione ai dettagli emotivi che pochi riescono a notare: come si è preso cura di suo fratello, così assume silenziosamente lo stesso ruolo con Jude e, se vogliamo, con il dolore: diversamente da suo fratello, però, Jude sottrae il suo dolore dalle mani degli altri, e questo ha un impatto anche su Willem che ha, nel corso del tempo, dato una sua concezione allo “stare accanto a una persona che soffre” e vede quella concezione inapplicabile con l’amico.
“[…] si chiedeva perché non avesse sollevato l’argomento con Jude, perché non lo avesse costretto a spiegargli cosa provava, perché non avesse mai osato fare ciò che l’istinto gli aveva detto centinaia di volte: sedersi accanto all’amico […]”
“Willem era sempre stato attento a non mostrarsi particolarmente interessato a esplorare i mille scomparti dentro il quale Jude si nascondeva.”
“Era implicito che per poter essere amici suoi bisognasse tenersi a distanza, accettare ciò che Jude diceva, voltarsi e alzare i tacchi quando una porta ti veniva chiusa in faccia, anziché cercare di forzarla per aprirla.”
Con Jude, condivide in un certo senso la “recitazione”: Jude, da una parte, recita di essere solo una parte di sé, nel tentativo di cancellare quella parte che è sopravvissuta al suo passato;
“Forse può provare a fingere per una ultima volta, solo che quest’ultima finzione cambierà davvero le cose, trasformandolo nella persona che sarebbe potuto diventare.”
Willem, invece, della sua capacità di immedesimazione riesce a fare anche un lavoro, diventando un attore ed, eppure, sente anche di perdersi in questo, sente di lasciare parti di sé in ogni ruolo, teme di non riuscire mai a riapprodare in se stesso.
Jude riesce a riportarlo sulla sua riva, alla sua Itaca, così come Willem è quel palco dove Jude non deve più recitare, perché sente di non starlo facendo, sente di essere l’Itaca che ha cercato per tutta la vita, che ha lottato per trovare.
“E ditemi, perché debbo esserne certo. Questo luogo che ho raggiunto, veramente è Itaca?”
Accanto a Willem, Harold e Andy sono gli altri due personaggi che, amando Jude, si scontrano inevitabilmente con il suo dolore: penso che il termine “scontrarsi” sia corretto, perché certe manifestazioni di Jude, in un certo senso, del suo dolore, diventano una sua sorta di guardia del corpo, consapevole di reggere una impalcatura senza la quale Jude non ha mai vissuto.
Harold è in primis un suo amico, così come Andy che è anche il suo medico e, insieme a Willem, sono tante sfaccettature che rappresentano la figura di chi sta accanto a qualcuno che non sta bene, con i loro limiti, con l’istinto primordiale di “fuga”, del “non volere sapere”, con i loro tentativi e con l’incapacità di comprendere e di accettare, accettare non solo il dolore, ma anche che non si può salvare
come si vuole
le persone che si amano dal dolore che provano.
Questa capacità, o incapacità, di accettazione evolve nel tempo. Al college, Willem sente la frustrazione di tutte le barriere che Jude fa calare, quando si rinchiude nel suo silenzio, si domanda sul senso di una amicizia che così è inevitabilmente univoca da un certo punto di vista e mette in discussione se stesso, come anche faranno Harold e fa Andy, sul suo stesso “silenzio,” su quale sia l’equilibrio corretto nell’accettare le regole che si da Jude.
L’amore, quello vero, che cerca un nuovo equilibrio che passa nell’accettare anche la propria impotenza, per la dolorosa consapevolezza che non è sempre possibile salvare dal dolore chi si ama, anzi; quell’amore che passa, così, nel non idealizzarlo più, che costruisce una casa attorno a quella persona per come questa è e non per come si vorrebbe che fosse, che impara il tuo linguaggio di vita per poter parlare con i tuoi demoni, se non può sconfiggerli.
L’abitudine al silenzio non è solo quella di Jude, ma anche quella di coloro che gli stanno accanto. Spesso non ci rendiamo conto di quanto anche il nostro silenzio, la nostra non dimostrazione di interesse (che magari c’è), faccia chiudere gli altri. Tutto diventa un circolo vizioso, dove i cardini di questo meccanismo diventano sempre più forti.
E il lettore, così come Jude e tutti gli altri, spesso si domanda “che cosa sarebbe successo se?”.
Ma di “se” è fatta la vita.
E in questo libro, meravigliosamente, non c’è nessun tribunale, nessuna colpa attribuita, ma la vita come è anche in questi casi: di quelli che possono essere considerati “errori”, di quelli che possono essere considerati “successi”.
Così la soggettività del lettore e dei personaggi irrompe inevitabilmente, ma irrompe come tale, appunto, come “soggettività” e non come una verità acquisita. Irrompe con la genuina fragilità sulla quale a volte si può costruire.
E questo senso di soggettività è alla base dell’empatia, una empatia che in questo romanzo è capace di spalancare le porte di tantissime riflessioni, di tematiche complicate, e che ha la capacità di lasciarti “pieno” dopo la lettura.
Una empatia che poi è essenziale per Willem, per Harold e Andy, per poter accettare che significa imparare il linguaggio dell’altro, anche perché solo così si può davvero aiutarlo — raggiungono Jude quando capiscono che non possono “ripararlo”: ci piacerebbe, spesso, sradicare il dolore delle persone che amiamo, ma se non ne conosciamo le radici, è già impossibile in partenza.
È qualcosa di difficile, guardare agli altri non come funzionano, ma considerando “perché funzionano” in un determinato modo: è spesso frustrante, spesso univoco.
E la lotta alla vita di Jude emerge anche in questo: nel lottare contro le sue stesse regole, nel cercare di estinguere quel contratto che ha firmato con se stesso, nella fatica inimmaginabile di mostrare quella impalcatura per permettere agli altri di stargli accanto.
Un atto di fiducia.
Un atto che lo rimette in discussione, che rimette in discussione come lui si è sempre pensato e ha sempre voluto essere visto. Che rimette in discussione, soprattutto, il ruolo che il dolore può assumere nella sua vita.
Penso a come, a volte, il vedere che gli altri stanno considerando una nostra fragilità, un nostro problema, lo vediamo […] come il loro identificarci con esso, quando invece è un prendersene cura. Un volerci bene sino ai tentacoli che qualche buio può avere in noi.
La vita è il vero protagonista di questo libro.
“Una vita come tante”: mi piacerebbe sapere il perché di questo titolo. Ho pensato che fosse intitolato così per dire che la vita di Jude esiste nella realtà, anche se non si vuole credere, in diverse manifestazioni. Mi è stato suggerito che il titolo potrebbe non essere riferito a Jude, ma a tutti i protagonisti e che il lettore la può attribuire a quello con cui si identifica di più: “Una vita come tante” perché in tanti, in diverse cose, possiamo rivederci. Questo proprio perché è sfumata in tantissimi aspetti.
Non so dare una risposta.
Forse la vita di ognuno di noi può sembrare “esternamente” una vita “come tante”, ma se ci leggiamo più da vicino, ogni vita è diversa dall’altra e questo rivendica quanto sia importante l’empatia e quando sia importante fare “un passo indietro”, dal nostro modo di tradurci e di tradurre e che abbiamo di imporlo agli altri, a volte.
E mi ha fatto pensare anche quanto la società ci lasci da soli, nel nostro silenzio e in quello degli altri, quanto sia importante che venga insegnato come maneggiarlo, questo silenzio. E questo, ovviamente, è riferito in primis al tema della salute mentale che in questo libro è intrinseco, ma non solo.
Questo romanzo è anche un appello a non lasciare soli coloro i quali hanno spesso le iene a far loro visita, di non fermarsi all’”esterno”, mai, con nessuno, di non giudicare l’“interno”, di chiedere agli altri gli strumenti per comprenderlo, di aiutarli nel trovare gli strumenti per trasformare, e non compartimentare, le ferite per le quali le iene, come ogni animale ferito, come ogni parte di noi spezzata e non curata, mordono.
Negare queste realtà vuol dire negare anche la vita di tanti.
Questo libro non è un romanzo che parla di “salvezza”, è un romanzo che da significato alla parola “accanto”, che lotta per trovarlo.
È un romanzo dove negli errori propri dell’umanità che è in noi, c’è la volontà di comprendersi, di mettersi in discussione, dove nessuno si da per vinto.
È un romanzo dove c’è una lotta assurda per non farsi fermare dalla vita.
Dove il “nonostante tutto” cela una “disposizione principiale” che emerge in un modo così incomprensibile da farti piangere per quanta bellezza esprime.
È un romanzo che non potrei non consigliarvi e che vi invito a leggere, con “dei ma”.
“Non leggetelo, se non state bene” è un’altra frase che ho sentito spesso attorno a questo libro. Io vorrei declinarla così.
Non leggete questo libro, se non siete disposti a “lasciarlo andare”, che sia per qualche giorno o per mesi: mi hanno detto di recente che i “libri sono appuntamenti” ed è vero; anche per me, con questo libro, è stato così: bisogna sentire che è il momento giusto.
E questo, secondo me, non dipende tanto da come stiamo. Perché vi direi anche di non leggere questo libro, se non siete disposti a “mettervi da parte”: quando leggiamo, ci leggiamo, ma questo deve essere spontaneamente naturale; se leggiamo un libro, secondo me, tentando di tradurci volontariamente, forziamo “la relazione” e di quel libro non ci mettiamo davvero in ascolto. Facciamo del libro uno strumento egoista che vuole dirci come vivere, cosa pensare, cosa sentire. Quando, invece, vuole solo raccontarsi. E ciò significa anche ascoltarlo davvero: non leggete questo libro, se non siete disposti a “mettere da parte” il vostro vocabolario di “io farei, direi, sarei” perché, a mio avviso, non si può leggere in altro modo (ma non solo questo libro).
E, poi, non leggete questo libro se non volete leggere del dolore: questa è la cosa principale. E ovviamente questo, sì, dipende “da come stiamo”, ma secondo me più da quanti strumenti abbiamo imparato per maneggiare il dolore nostro e altrui, da quanto abbiamo imparato a “tradurre”.
Ci sono momenti in cui questo non riusciamo a farlo e così non riusciamo neanche a “metterci da parte” e allora, grazie al cielo, visto che ci sono tantissimi altri libri meravigliosi — libri con cui la lettura in quel momento non diventa, per entrambe le parti, una lettura forzata, ma un dialogo — , “lasciamolo andare” e aspettiamo un prossimo incontro.
Se sei arrivato sino a qui, vuol dire che hai già letto il romanzo o che non temi “spoiler”, perché qui questi ci saranno: quindi, ecco, se sei arrivato sino a qui (e già grazie!) per errore, senza saperlo, smetti di leggere.
L’epilogo, da un certo punto in poi, penso sia scontato.
Non come è scontato qualcosa di banale, ma come è scontato che il tramonto finisca, che l’acqua scivoli via nello scarico, che il sangue venga assorbito dal cotone, se lo metti sopra una ferita aperta.
Per come ho inteso io il significato di questo romanzo, sento di poter capire la “scelta” dell’autrice che riguarda sia Willem che Jude, come invece non ne ho capito altre — ad esempio, la brutalità che hanno rappresentato sia il dottor. Traylor che Caleb: penso che il dolore fosse giù arrivato a un punto insostenibile, senza il primo e senza la pura cattiveria del secondo.
Jude lotta perché, nonostante tutto, la vita con lui è stata anche buona, generosa; lotta perché, nonostante tutto, è capace ancora di provare gratitudine, di considerarla tale; Jude lotta per quello che rappresenta la vita stessa, per quel futuro che da bambino immaginava diverso, come lotta per gli atri in tribunale, come lotta con le sue iene, indipendentemente da come lo faccia. Con Caleb, ha lottato per darsi una possibilità e anche dopo di lui, assurdamente, nonostante tutto, ha lottato per Willem e così anche per se stesso. Ha sempre lottato, ma non gli è mai stato insegnato il modo giusto per farlo per se stesso.
“Non sa come spiegare se stesso a se stesso”
Ha spesso ritenuto inevitabile il dolore nella sua vita, eppure di inevitabilità nella sua vita non c’è stato davvero niente, perché niente in fondo c’è: nelle maglie di ciò che crediamo già deciso, possono nascere tantissime cose.
L’“assurda” enormità del dolore avrebbe reso inevitabile la sua decisione già molto prima, ma così non lo è stato.
Quindi sì, da un certo momento in poi, il finale è scontato, potremmo anche dire “inevitabile”, se vogliamo, ma accanto deve inserirsi, secondo me, un “nonostante tutto”, dove il “nonostante tutto” non vuole significare una sconfitta, ma una lotta che non era affatto né scontata né inevitabile.
Se il capitolo “Anni felici” fosse finito diversamente, penso che il finale sarebbe stato un altro, ma anche che la lotta per la vita non sarebbe emersa in modo così tragicamente potente — è con questo che io riesco a capire le “scelte” dell’autrice sia in negativo che in positivo (la “fortuna” che ha Jude), che questo tema sarebbe scivolato, alla fine, a favore del senso di pace della tregua, del prezzo e del premio del mantenerla, che di quello forse si sarebbe parlato.
Quello stesso senso di pace che, però, da anche la fine del tramonto, pur lasciandoti qualcosa d’altro. E che penso abbia anche Jude.
“Tutti stiamo morendo. Neruyev sapeva semplicemente che la sua, di morte, sarebbe arrivata un po’ prima di quanto avesse previsto. Ma questo non significa che i suoi non siano stati anni felici.”
Sensibilandia, di nome e di fatto.
Le parole sono il solo modo che conosco per srotolare i gomitoli che abitano le mie città invisibili: le leggo, le scrivo, le ascolto - e così, sempre, le “sento”.
Sono liquide. In movimento, sempre. Mai relegate a una carta stampata o a una voce. O a una email. Cambiano solo forma, prendendo perfettamente il posto che si trovano davanti, come l’acqua, come i gatti. E per quanto tu possa prevederle, programmarle, sono loro, in realtà, a chiamare te.
La magia è che, per ognuno, questa chiamata può dire qualcosa di diverso.
Vi affido queste parole e vi ringrazio tantissimo di avere scelto di leggerle; magari sosteranno un po’ in voi, o forse no, ma mi piace pensare che, in qualche modo, il loro viaggio continuerà. E, se pensate che possano “dire qualcosa a qualcuno”, sarei felice che le condivideste con quella persona.
Amo il contraddittorio, la dialettica e il “mantello della invisibilità” che ci da internet, spesso, e che ci permette di condividere di più, di aprirci di più e, così, di trovare persone con la nostra stessa sensibilità: se avete voglia di “inviarmi il vostro gufo”, rispondere, condividere qualsiasi cosa, dunque, mi trovate “qui” (o sui social).